L’incubo del voto senza vincitori in Grecia. La crisi russa e il crollo del rublo. La politica monetaria americana, sempre più vicina a prendere una direzione opposta a quella della Bce. Le nubi che si vanno addensando all’orizzonte del Continente sono sempre di più. Per l’ennesima volta i leader europei si siedono attorno al tavolo pletorico del Consiglio - il primo guidato dal polacco Tusk - senza una direzione di marcia precisa. Tutte le attenzioni sono concentrate sul piano Juncker, il quale però sarà all’ordine del giorno solo a febbraio e operativo a giugno. Per il momento a farla da padrona al tavolo europeo sono le diffidenze reciproche, quelle che permettono al governatore della Bundesbank Jens Weidmann di ripetere ormai quotidianamente che forse il piano di acquisti di titoli pubblici della Bce non ci sarà, che la deflazione non è dietro l’angolo, che l’Italia deve fare di più. Ieri, per l’ultima volta da presidente, Napolitano ha invitato al Quirinale Renzi e gli altri ministri impegnati nel dossier. C’erano Padoan, Gentiloni, Gozi, Guidi, Delrio. La linea è sempre la stessa: l’Italia insisterà nel tentativo di allargare lo spiraglio aperto dalla stessa Commissione, ovvero l’esclusione dal Patto di stabilità non solo dei contributi diretti dei singoli Stati al piano Juncker, ma anche delle spese di cofinanziamento. «Su questo andiamo avanti, è una partita dura», racconta ai suoi il premier. «Siamo solo all’inizio di un cambiamento da ottenere con ostinazione». Difficilmente però Renzi oggi spingerà il piede sull’acceleratore. «Vediamo come va la discussione», spiega una fonte di Palazzo Chigi. Per rimettere i guantoni meglio aspettare la prossima riunione, quando il premier avrà smesso i panni di leader pro-tempore del semestre.

La vera urgenza è far risalire la credibilità dell’Italia, agli occhi dei tedeschi appannata dalla difficoltà di Renzi a ottenere dal Parlamento il via libera alle riforme. Racconta un’autorevole fonte di governo: «Il livello di monitoraggio al quale siamo sottoposti è arrivato al punto per cui quando incontro qualche interlocutore straniero mi chiedono qual è il decreto attuativo approvato nella settimana». La pressione da Berlino si fa sentire, ed anche per questo il governo ha deciso di anticipare alla vigilia di Natale l’approvazione di almeno uno dei decreti di attuazione del Jobs Act. I tedeschi non capiscono i bizantinismi della politica italiana e la loquacità di Weidmann è la pietra di paragone dello stato dei rapporti: più volte in passato, se necessario, la Merkel ha preso le distanze dal capo della sua banca centrale. Stavolta invece no. Ecco perché il responsabile economia del Pd Filippo Taddei, la squadra degli economisti di Palazzo Chigi e Poletti stanno lavorando a pieno ritmo per definire il decreto che di fatto abolirà l’articolo 18 e, se possibile, anche quello che allargherà i sussidi di disoccupazione a precari e collaboratori a progetto. Ed ecco perché la Boschi sta facendo pressione sui ministri per accelerare l’approvazione dei decreti di attuazione in stand by sin dal governo Monti. Quando il governo si è insediato i decreti ministeriali da approvare erano novecento, ora sono circa seicento, l’obiettivo entro massimo un mese è di scendere a trecento. Renzi sa che per poter contrastare l’egemonia tedesca sull’Unione l’unica strada è presentarsi, se non con i compiti fatti, con le carte in regola.

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