21 aprile 2021 - 00:03

Omicidio Floyd, le immagini e la rabbia così cambia per sempre la coscienza dell’America

Un verdetto di colpevolezza obbligato che lascia spazio a un ricorso della difesa: dalle pressioni della piazza all’indennizzo alla famiglia deliberato all’inizio del processo

di Massimo Gaggi

Omicidio Floyd, le immagini e la rabbia così cambia per sempre la coscienza dell'America
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La scena non solo tragica, ma trasformata dalla tecnologia delle videocamere e delle reti sociali in un caso mondiale, ha prodotto un caso giudiziario senza precedenti e addirittura surreale: senza paragoni non solo per la testimonianza filmata (tanti i precedenti, da quello di Rodney King, l’attivista nero di Los Angeles massacrato di botte nel 1991 da quattro agenti), ma anche per le immagini riprese da tutti gli angoli e in vari momenti, prima e dopo l’arresto di George Floyd, che hanno consentito a ognuno di noi di diventare giudice e hanno provocato un’onda di proteste e anche di violenze che ha condizionato il processo di Minneapolis. Surreale perché le immagini di un agente che tiene per oltre nove minuti il ginocchio sul collo di un uomo ammanettato e steso sull’asfalto anche dopo che George, morente, aveva perso conoscenza, davanti a una platea impotente di passanti che chiedono solo pietà, rimarranno per sempre impresse nella memoria e nella coscienza dell’America.

Il verdetto di colpevolezza su tutti i capi d’imputazione, a partire dall’omicidio di secondo grado che comporta una pena fino a 40 anni di reclusione (praticamente un ergastolo, anche se la durata della detenzione verrà decisa successivamente dal giudice) è durissimo: uno di quei casi in cui si può parlare di «pena esemplare».

In una condizione così anomala ed estrema il giudice Peter Cahill ha tenuto la barra ferma andando fino in fondo, ignorando tutte le pressioni per rinviare il processo e trasferirlo altrove in modo da sottrarlo alle emozioni estreme di queste settimane e respingendo anche la richiesta di mistrial (annullamento del procedimento da ricominciare da capo con un’altra giuria). Richiesta ribadita dalla difesa di Derek Chauvin dopo la grave sortita della deputata democratica nera Maxine Waters che ha invitatole folle che da settimane protestano a Minneapolise in tutta l’America creando forti preoccupazioni per l’ordine pubblico, a comportarsi in modo ancor più duro, determinando (ma a destra la parola confrontational è stata interpretata come un invito alla violenza in un clima già surriscaldato) in caso di assoluzione dell’agente sotto processo.

Cahill ha mostrato nervi d’acciaio soprattutto quando ha dovuto ammettere che l’intervento della Waters offriva buoni argomenti per la richiesta di annullamento della difesa, ma poi ha deciso comunque di tirare dritto. Probabilmente è stata la scelta giusta sia dal punto di vista della tenuta nervosa di un’America scossa dalle tensioni razziali che non avrebbe retto a un altro rinvio, sia da un punto di vista di sostanza della soluzione del caso: i fatti sono chiari, le immagini non lasciano dubbi e Chauvin, prima ancora che dalla giuria, è stato condannato dalla città (il municipio che ha riconosciuto un indennizzo record di 27 milioni di dollari alla famiglia di Floyd) e dallo stesso capo della polizia di Minneapolis. Mentre nessuno dei 12 giurati sembra aver avuto esitazioni, vista la condanna-lampo, unanime.

Ma da dal punto di vista procedurale del rispetto delle garanzie per l’accusato — un vanto del sistema giudiziario americano — quella del processo a Chauvin rimane una pagina a dir poco amara: tanti i fatti, dalle pressioni della piazza all’indennizzo alla famiglia Floyd deliberato all’inizio del processo, passando per l’intervento della Waters e le preghiere di Biden per un «verdetto equo», che possono essere usati dalla difesa per ricorrere contro la sentenza.

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