4 agosto 2020 - 21:43

Maurizio de Giovanni, il nuovo romanzo con il «Corriere della Sera»

Esce giovedì 6 agosto in edicola il nuovo romanzo dello scrittore, «Il concerto dei destini fragili», ambientato nei giorni più neri dell’emergenza

di MAURIZIO DE GIOVANNI

Maurizio de Giovanni, il nuovo romanzo con il «Corriere della Sera» Lo scrittore Maurizio de Giovanni, sullo sfondo di Napoli e di Bergamo, la città più duramente colpita dal Covid-19, ritratto dall’illustratore spagnolo Sr García
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La copertina del nuovo libro di Maurizio de Giovanni
La copertina del nuovo libro di Maurizio de Giovanni

Tre personaggi molto lontani tra loro per estrazione sociale, atteggiamento nei confronti della vita (e della malattia), comportamenti e abitudini: il virus cambierà tutto, e i tre passeranno, come il mondo intero, attraverso i giorni di angoscia e di isolamento del lockdown e la tragedia della pandemia. Il nuovo libro di Maurizio de Giovanni, l’autore napoletano di thriller come la saga dei Bastardi di Pizzofalcone, non è un poliziesco ma un romanzo sull’emergenza coronavirus: Il concerto dei destini fragili, di cui qui proponiamo i primi due capitoli, sarà in edicola il 6 agosto con il «Corriere della Sera» (pagine 160, euro 13 più il prezzo del quotidiano). Il 6 agosto, in occasione dell’uscita, Roberta Scorranese intervisterà Maurizio de Giovanni su corriere.it, alle ore 18.

Il dottore
Una volta, più o meno a metà del corso universitario, aveva letto un romanzo.
Doveva essere non oltre il terzo anno, a ripensarci adesso, perché poi le cose si erano fatte complicate e di tempo per leggere altro che non fossero testi scientifici di approfondimento non ne era rimasto molto.

Da ragazzo leggeva tanto. Per carità, guardava anche la televisione e quando c’era da proporre cosa fare il venerdì sera lui votava per il cinema. Gli piacevano le storie, allora, soprattutto se parlavano di persone che cercavano di fare qualcosa di bello, di particolare.
Di eroico, probabilmente.
Passandosi una mano sulla faccia, pensò che adesso invece delle storie ne aveva abbastanza.

Comunque nel romanzo riemerso dalla memoria senza apparente motivo c’era un dottore che lavorava in Africa, o in Medio Oriente, adesso non ricordava; e nemmeno ricordava l’autore o il titolo, magari gli sarebbero venuti in mente dopo una nottata continua di sonno, ad avercela, una nottata continua di sonno. Il dottore curava malaria, tracoma, perfino il vaiolo. Era l’epoca in cui leggeva storie che riguardavano la medicina, come se non fosse possibile pensare ad altro.

Comunque il protagonista si affezionava a una bambina, cercava di salvarla in tutti i modi, e alla fine ci riusciva. Ricordava questa ultima pagina, in cui erano tutti felici nel sole. Il sole. Chissà se fuori dall’ospedale adesso c’era, il sole. O piuttosto pioveva, come dentro di lui.

La spoglia stanza del medico di guardia non aveva finestre, e nemmeno avrebbe avuto senso perché si trovava nel seminterrato. Una scelta saggia, alla resa dei conti. Anche perché i quindici letti del reparto non ospitavano pazienti che avrebbero trovato conforto in un pezzo di cielo azzurro, o in due nuvole che si rincorrevano. Tantomeno in un raggio di sole improvviso.

I pazienti dei quindici letti avrebbero trovato conforto nel respirare autonomamente, invece. O nel poter distinguere la fisionomia di chi cercava di aiutarli a sopravvivere, oltre al fugace anonimo sguardo che incrociavano attraverso le protezioni che tutti indossavano.

Il dottore pensava a volte quanto incidesse la paura sull’aggravamento e sulla morte. Una maschera e un tubo, i monitor, la posizione prona; e un gruppo di alieni mascherati che ti si muovevano attorno, maneggiando macchinari dall’ignoto significato senza un commento, senza la possibilità di un sorriso rassicurante. Per la maggior parte, i pazienti erano persone umili, senza cultura, che mai avrebbero immaginato di trovarsi in quella situazione.

Si guardò le mani. Erano bianchicce, come se fossero rimaste immerse nell’acqua a lungo. Lanciò un’occhiata verso lo specchio appeso alla parete: i segni rossi della mascherina, i capelli attaccati alla fronte dal sudore, le profonde occhiaie. Mamma mia, pensò. Ho trentacinque anni. Come sarò a sessanta?

Se ci arrivo, a sessanta. La risposta risuonò immediata dai bassifondi della mente ottenebrata dalla stanchezza. Se questo che è appena iniziato non sarà il mio ultimo aprile, in perfetta sequenza con questa merda di marzo che si è portato via otto tra colleghi e infermieri, e chissà quanti altrove, e chissà quanti là fuori, tra i medici di base che girano con la borsa in mano di colpo di tosse in colpo di tosse, di polmonite in polmonite, di inferno in inferno.

La malaria. Magari fosse malaria. Magari fosse codificato, magari se ne capisse qualcosa. Magari ci fosse un cazzo di protocollo, un flacone da iniettare, compresse da far inghiottire. Miglioramenti da verificare. Il collega del romanzo, che sorrideva nel sole dell’Africa, era stato fortunato. Fortunatissimo. Chissà se lo sapeva.

Di questa malattia, pensò, ci ammaliamo tutti. Nessuno escluso. Si ammalano quei poveri dannati, stesi a pancia in giù nei quindici letti, disperati. Si ammalano i colleghi e gli infermieri, per quanto possano ripararsi e coprirsi e schermarsi. Si ammalano perfino quelli che restano sani, di paura e di mancanza di futuro, niente sorrisi nel sole all’ultima pagina per nessuno, caro il mio anonimo autore dell’anonimo romanzo letto all’università. E pure tu, disse alla faccia nello specchio, hai contratto la malattia e probabilmente non guarirai più.

Sentì bussare piano alla porta. Si affacciò il viso grassoccio di Ivana, la caposala. Dottore, disse piano, Berardi sta andando via. Chiede se può fargli la cortesia di entrare in servizio mezz’ora prima.

Berardi. Una decina d’anni più di lui, teoricamente con maggiori responsabilità. Uno di quelli che avrebbero dovuto restare a supporto, anche quando non erano in servizio. E invece se poteva fargli la cortesia, mezz’ora prima: tanto lui c’era sempre. Lui a casa non riusciva ad andarci perché si sentiva un vigliacco, e perché sotto sotto aveva paura di portarsi addosso qualcosa da regalare a chissà chi.

La mente gli offrì, pronta, l’immagine di Barbara che si voltava dall’altra parte mentre lui la guardava attraverso il finestrino del treno, per non fargli vedere che piangeva.
Ma sì, Ivana, digli di sì. Tanto è la stessa cosa.
Si alzò, sospirando. Trentacinque, ma fossero centotrentacinque non peserebbero di più sulla mia schiena.
Cominciò a vestirsi.

L’avvocato
Ad alta voce disse: Alexa, fammi sentire John Coltrane. Il robot sussurrò la propria obbedienza, e la musica avvolgente si diffuse morbida nel vasto ambiente.

L’avvocato andò al mobile bar e si versò un bicchiere di qualcosa, avvicinandosi poi alla grande vetrata che sostituiva la parete e offriva un panorama sulla città di sera che sembrava un quadro. Nei film americani, pensò, funzionava. Nei film uno beveva un superalcolico, ascoltava musica e poi squillava il campanello.
Il campanello non squillò.
Allora si sente il telefono. Anche solo per un messaggio.
Il telefono restò muto sulla superficie di cristallo del tavolo.

Restò a fissare le strade illuminate dai lampioni. Uno spettacolo di solitudine e di silenzio per il quale, normalmente, bisognava aspettare che fosse notte alta; invece adesso, gli comunicò l’orologio, erano appena le venti e trentaquattro.

Registrò pigramente di essersi perso il telegiornale. Non un gran problema, ormai: la mitragliata di dati, le curve in crescita, il peggioramento dei numeri e le relative dotte interpretazioni lo avrebbero comunque raggiunto facilmente. Anzi, a dirla tutta sarebbe stato impossibile evitarli, traboccanti e univoci e martellanti com’erano, sui giornali online e sul web.

Avrebbe potuto mettersi a leggere. La pila di libri di varia natura, comprati nel tempo e rinviati a quando avrebbe avuto la serenità e la quiete almeno per cominciarli, gli rivolgeva la solita muta accusa dal comodino; ma per leggere bisognava avere voglia di viaggiare con la mente, e lui non riusciva nemmeno ad ancorare le idee alla realtà, al momento.

Certo, si poteva sfuggire alle notizie nere con un film. Magari una commedia, di quelle che fanno ridere e ti illudono che da qualche parte nel mondo sia rimasto qualcosa di divertente. Ma per chissà quale motivo non gli sembrava il caso.

Un po’ ce l’aveva, questo problema: sentiva il vago disagio di uno scrupolo sottile di coscienza, come se non soffrisse abbastanza, come se non riuscisse a compenetrarsi a sufficienza di ciò che stava succedendo là fuori. Ma ci conviveva da sempre, con questa punta di sottile scrupolo. Colpa di un’educazione borghese e radical chic, dell’esclusivo liceo gestito da preti, di una mamma perennemente impegnata in canaste di beneficenza, dibattiti di beneficenza, mostre di beneficenza. Consapevole come tutti nel suo ambiente di avere la colpa della ricchezza in un mondo di morti di fame.

Questo contemplava la percezione di sé stesso come lievemente fuori fuoco, appena un po’ ai margini del campo visivo sociale. Certo, faceva l’avvocato: ma si occupava di diritto societario, un mare dove sopravvivevano solo i pescecani. Nulla a sostegno degli umili, se non qualche donazione consigliata dal commercialista per motivi fiscali.

Adesso però che fissava la città muta, distesa al di là della vetrata, col vino nel bicchiere e John Coltrane che faceva del suo meglio per distrarlo, si chiedeva come doveva essere avere paura del futuro. Una paura differente da quella ben nota a chi scendeva ogni mattina a combattere per la sopravvivenza: questa doveva essere il terrore di un mondo nuovo, da affrontare senza riserve e senza forze.

Lui invece, dotato di risorse che non sarebbe riuscito a erodere nemmeno con una vita di stravizi, figlio unico con una madre svampita chiusa in un universo di due badanti e tre chihuahua, senza moglie né figli, viveva la situazione come un noioso, logorante impedimento. Con lo studio chiuso, le cause sospese, le transazioni congelate, si sentiva penzolare nel vuoto di un fastidioso intervallo. Che magari sarebbe finito e magari no, lasciandolo lì con Coltrane e il vino a guardare la città in coma, e a chiedersi quando fosse successo che la sua vita si era svuotata in quel modo.

Perché senza gli aperitivi e le cene, senza le vacanze da organizzare e la barca da rimettere a posto, senza le frenesie dello studio e i successi professionali da incasellare come pezzi da collezione, l’avvocato era tutt’altro che glamour e rilevante.
Era solo uno che guardava un panorama deserto, col bicchiere in mano.
La mente, che si muoveva per conto suo, propose perfidamente l’immagine di Simona.
E lui andò a versarsi un altro bicchiere.

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