di Dino Messina
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di Dino Cofrancesco
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Eysrturoy è la seconda isola dell’arcipelago delle Feroe situato al largo delle coste settentrionali dell’Europa, tra l’Islanda e la Scozia. “Le isole sono una Nazione costitutiva del Regno di Danimarca e del Folketing, ovvero il Parlamento danese, che comprende anche Danimarca e Groenlandia. Hanno ottenuto l’autonomia nel 1948 e nel corso degli anni hanno acquisito il controllo su quasi tutte le questioni di politica interna, ma non la difesa e gli affari esteri. Con l’eccezione di una piccola forza di polizia e guardia costiera, non hanno una forza militare organizzata, che rimane responsabilità della Danimarca”.
A Eysrturoy, sulla spiaggia di Skalabonur , anche quest’anno si è rinnovato l’antico rito vichingo della strage di delfini – i cetacei più socievoli e intelligenti del pianeta — che sta giustamente suscitando l’indignazione del mondo intero. “Una strage — ha commentato sul ‘Secolo XIX’ e sulla ‘Stampa’ Donatella Bianchi, Presidente del WWF Italia e del Parco delle Cinque terre — (la più numerosa della storia recente visto che sono stati superati i 1200 animali uccisi del 1940) in cui è stata cancellata la vita di millecinquecento globicefali sacrificati sull’altare di una tradizione, il Grindadràp, che sembra essere diventato un colossale monumento alla crudeltà”. ”Eppure, prosegue Bianchi, parliamo di isole evolute |…| Nella tradizione vichinga uccidere un globicefalo era il rito di passaggio dalla pubertà all’era adulta, ma anche una facile occasione di procacciarsi cibo”, oggi gli isolani “non hanno bisogno di uccidere cetacei per sopravvivere”.
Condivido toto corde l’allarme lanciato dal Presidente del WWF e il suo severo monito.” Il genere umano non può continuare a immaginare il proprio rapporto con la natura che lo circonda e che gli permette d vivere, senza un limite. E, soprattutto, non può continuare a pensare a se stesso come l’unico soggetto di diritti sul pianeta”. Vorrei, però, richiamare l’attenzione su un topos retorico che da troppo tempo avvelena la nostra political culture ovvero l’esaltazione—ottusa e incondizionata–delle autonomie locali. E’ davvero pensabile che lo stato nazionale danese, un modello di democrazia politica, avrebbe consentito il perpetuarsi di una ‘tradizione’ che, per quanto antica, non può giustificare in alcun modo l’atroce mattanza di Eysrturoy? La ‘saggezza dell’Ottocento’ è consistita nell’arte di contemperare passato e presente, tradizione e modernità, la ‘legge uguale per tutti’ e la difesa delle identità locali: in facile, estrema, sintesi, destra e sinistra. Oggi quella saggezza sembra in via di dissoluzione: da un lato, il momento universalistico del rapporto sociale sta facendo strame di usi, usi, costumi, mentalità ereditati dal passato (v. la proliferazione di diritti che, ad es. in campo bioetico, non tengono in alcun conto i ‘pregiudizi’ ereditati dai nostri padri sulla famiglia, la sessualità, la, procreazione); dall’altro, l’insofferenza nei confronti del vecchio Stato di diritto alimenta un federalismo diffuso, una rivendicazione orgogliosa delle radici anche quando sono (moralmente) marce, un’esaltazione dei paesaggi storici travolti dalla modernizzazione compatibile peraltro con l’utopia di comunità naturali (quali?) che sarebbero più efficienti nel produrre e distribuire benessere, se lasciate al loro destino.
Universalismo e comunitarismo, a ben riflettere, hanno un bersaglio comune: lo Stato nazionale, il ‘nostro nemico’ per antonomasia, stando agli ultras del federalismo e del liberismo dell’Istituto Bruno Leoni. Dall’alto e dal basso si susseguono colpi di piccone per demolirlo, dimenticando che il grande livellatore – lo Stato unitario, la più alta realizzazione politica del Risorgimento — azzerò potere e influenza dei tirannelli locali, alla don Rodrigo, sottrasse l’educazione ai comuni per affidarla a insegnanti reclutati da ogni parte d’Italia in base a competenze accertate e a concorsi pubblici, stabilì per legge che strade, scuole e acquedotti dovevano essere i primi capitoli di spesa degli enti locali, impose ‘la legge e l’ordine’ dalla Lombardia alla Sicilia. Non ne sto facendo l’apologia: so bene che ci troviamo oggi dinanzi a istituzioni che non riescono più a far fronte ai loro compiti tradizionali, investite come sono dalla globalizzazione, dai flussi migratori, da un pensiero unico, ormai insediato nelle due rive dell’Atlantico, che vede nelle nazioni sopravvivenze arcaiche. E’ un fatto, però, che non si può sottrarre a quanto rimane dei vecchi Stati la legislazione su pratiche locali che l’opinione pubblica avverte come vergognose e aberranti. Dobbiamo una buona volta stabilire se la moderna citizenship ci renda tutti eguali e tutti interessati a una tavola di valori comuni—sicché il delitto d’onore d’antan o le tonnare non riguardano solo i siciliani ma sono questioni pubbliche su cui deve pronunciarsi ogni italiano—o se dobbiamo considerarci membri di una comunità politica a responsabilità limitata—sicché non esistono aree di interesse nazionale che non siano state concesse e concordate con gli enti locali. Per chi si riconosce negli ideali dei Padri Fondatori, Venezia non è dei veneziani, né Firenze dei Fiorentini, né Roma dei romani: Venezia, Firenze, Roma appartengono a tutti gli italiani e quanti amministrano quelle città, votati da coloro che vi abitano, non debbono rispondere di eventuali reati ai propri concittadini ma all’intera comunità nazionale—che le libertà e i poteri locali inquadra nell’ordinamento statale.
Ignoro le ragioni che hanno indotto la Danimarca a concedere l’autonomia alle Isole Feroe consentendo, nel corso degli anni, ”il controllo su quasi tutte le questioni di politica interna”. Certo è che, forse per la paura di una secessione, Copenaghen ha consentito alla barbarie vichinga di calpestare i più elementari sentimenti di umanità e di pietà verso gli animali. Abraham Lincoln sfidò la secessione non tollerando che nella stessa comunità politica bianchi e neri non facessero egualmente parte del genere umano.

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