Allegri e la Juventus che non si aggiusta: i punti che ancora non tornano

di Paolo Tomaselli

La gestione dei giovani, la spaccatura con la vecchia guardia, i cambi, il baricentro troppo basso: la seconda esperienza di Allegri alla Juve non è partita come ci si aspettava

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È entrato nel tunnel a fine partita imprecando e urlando: «Questi vogliono giocare nella Juve!». È riemerso dopo mezzora, facendo autocritica («Ho sbagliato i cambi»), ma anche mettendo i paletti sul cammino accidentato di una squadra che non andava così male dal 1961, con il tricolore sul petto e Sivori-Charles in campo. Massimiliano Allegri cerca la Juve di un tempo, quella dei suoi cinque scudetti consecutivi, ma per adesso ha trovato solo una Juve che dura un tempo (o al massimo un’ora) e poi finisce inghiottita in quel confine pericoloso tra il passato che non torna e il futuro che non arriva: zero gol fatti nella ripresa, zero gol dai panchinari, 3 gol subiti negli ultimi quindici minuti, 7 punti svaniti da situazioni di vantaggio, terzultimo posto con due punti e un calendario che in 33 giorni prevede dopo Spezia e Samp, le sfide con Torino, Chelsea, Roma, Zenit e Inter.

Il secondo atto di Allegri — tornato dopo due anni di inattività come salvatore della patria e con un contratto quadriennale da 7 milioni netti a stagione — finora è la classica minestra riscaldata.

Max ha lasciato una squadra adulta, che sapeva sempre a che gioco doveva giocare nell’arco dei novanta minuti e ha ritrovato una squadra adolescente, alla quale per due anni è stato chiesto di costruire qualcosa di diverso e che adesso sembra non riuscire a fare nessuna delle due cose. Per errori individuali — come quelli di Szczesny nelle prime giornate e di Rabiot che ha regalato l’angolo decisivo al Milan domenica sera — ma anche per un insostenibile arretramento del baricentro nel secondo tempo, nel quale il possesso palla bianconero si è rattrappito fino al 37%: la palla scotta insomma, sia per alcuni giocatori, che per il modo di stare in campo della squadra, fin troppo vintage. Una nemesi per l’allegrismo, che solo Allegri stesso può cancellare, con quel lavoro artigianale sui singoli che spesso lo ha esaltato.

«Quando c’è il momento decisivo della partita bisogna capire che la palla diventa pesante e alla Juve ha un peso diverso. L’ho spiegato mille volte — ha detto Max con tono sostenuto —. Bisogna essere responsabili, bisogna avere la cattiveria giusta. È semplice, basta complicarla con schemi, moduli e robe». Certo, i troppi minuti trascorsi nel finale contro il Milan fra l’input della panchina di passare al 4-3-3 e l’esecuzione da parte della squadra, dimostrano che anche le cose semplici sono un po’ arrugginite. E che una squadra che insegue il pallone per novanta minuti, anche con buoni risultati e movimenti ben congegnati, alla lunga, finisce per essere poco lucida in difesa.

L’eventualità che ci siano giocatori non adatti alla Juve è concreta perché la società ha seguito sempre più logiche finanziarie e non di campo e la squadra è male assemblata («abbiamo un centrocampo storto» ha sintetizzato Max) ma il mercato è distante e i conti sono rosso fuoco. Il risultato è quello di una potenziale spaccatura tra vecchia guardia e giovani rampanti ma ancora da forgiare. Allegri, tecnico vecchio stampo in un calcio che cambia in fretta, aveva usato bastone e carota anche con Morata e Dybala agli inizi, poi con Rugani e Kean. Certo, De Ligt e Chiesa (un po’ meno Kulusevski) sembrano già strutturati. E le parole sull’azzurro hanno un po’ sorpreso: «È un giocatore bravo, che come tutti gli altri deve crescere e acquisire autorevolezza e consapevolezza che siamo alla Juventus». Saggezza di un maestro vincente o paternalismo anacronistico di chi non sa ancora come far convivere Dybala e Chiesa? Il metro di giudizio sono i risultati, come dappertutto. Ma nel mondo dell’allegrismo lo sono un po’ di più.

21 settembre 2021 (modifica il 21 settembre 2021 | 07:48)