Milano, 17 aprile 2017 - 18:11

Come si può finanziare
il reddito di inclusione

I soldi, in un bilancio pubblico di circa 700 miliardi di euro, si possono trovare. Perché non ripartire allora dal rapporto di Francesco Giavazzi sugli incentivi alle imprese?

Un disegno di Beppe Giacobbe Un disegno di Beppe Giacobbe
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Considerato che in Italia sono nati meno figli che nel terribile anno dopo la prima guerra mondiale e che aumentano sempre più i giovani che vanno all’estero, c’è da chiedersi cosa offrire a chi resta. Quasi tutti gli economisti concordano ormai che l’economia digitale non stia creando nuovi posti stabili, tutt’altro. Robert Solow, già trent’anni fa sosteneva come «l’età dei computer si può scorgere ovunque tranne che nella crescita della produttività». Un caso emblematico oggi gli dà ancora ragione: la globalizzazione internettiana, l’utilizzo delle piattaforme di servizi di vario genere scuote i vecchi lavori e rende già precari quelli nuovi e a poco servirebbe una tassa sui robot. Questo genere di rivoluzioni o si vietano del tutto o è inutile se non impossibile fermarle, che si tratti di una macchina a vapore, di un calcolatore o di un’applicazione.

Dove non arriva il mercato, l’emergenza andrebbe quindi affrontata dallo stato. L’approvazione delle legge delega sulla povertà, che dovrebbe permettere un sostegno economico a 1,8 milioni di italiani in difficoltà, riporta in auge la fattibilità o meno del reddito di cittadinanza, quel riconoscimento che, declinato con modi e nomi diversi, numerose società stanno cercando di sperimentare e che lo stesso governo Gentiloni vorrebbe varare in chiave «inclusiva» e non meramente di sussidio. Il problema è peraltro planetario. Lo staff di Thomas Piketty ha recentemente lanciato l’idea di un assegno mondiale per chi è rimasto sotto i livelli minimi di povertà. Costerebbe 400 miliardi di euro. Una somma immensa per qualsiasi Tesoro. Esperimenti pilota non di questo taglio sono in corso in India, in Finlandia, mentre in Cina c’è un sostegno alla povertà rurale e urbana, il Dibao. In Europa, invece, nessuno ci ha ancora pensato, nel momento in cui la Commissione guidata da Mario Monti si accinge a rivedere i criteri di Bilancio Ue. Eppure decidere di destinare una quota dei 1.000 miliardi complessivi ad una forma di integrazione al reddito per i disoccupati forse fa tremare le vene, ma sarebbe un magnifico programma per chi vuole dimostrare coi fatti che a Bruxelles e Francoforte non si pensa solo alle banche.

In questo quadro continentale desolante, almeno in Italia, da Matteo Renzi (lavoro di cittadinanza) al Movimento 5 Stelle (reddito di cittadinanza) per finire appunto all’esecutivo in carica (reddito di inclusione) si confrontano idee alternative per cercare delle risposte alla dittatura del capitale senza lavoro. Il movimento grillino ha il merito di averne parlato per primo, redigendo una proposta di legge per un reddito integrato di 9.630 euro annui lordi, che è rimasta ferma in Parlamento. Rivedendo le coperture individuate dal M5S (tagli alle pensioni alte, alla spesa pubblica e tassazione del gioco d’azzardo, per citarne solo alcune) l’allora viceministro all’Economia Stefano Fassina stimò i costi in almeno 30 miliardi di euro l’anno. Qualcosa però si può fare. I soldi, in un bilancio pubblico di circa 700 miliardi di euro, si possono trovare. Perché non ripartire allora dal rapporto di Francesco Giavazzi sugli incentivi alle imprese?

Il piano dell’economista fu redatto su incarico del governo Monti ed aveva come obiettivo quello di fare un censimento dei tanti incentivi pubblici alle aziende, individuando quelli che non fossero stati necessari. Giavazzi indicò in 10 miliardi di euro i sostegni statali che sarebbero potuti essere cancellati senza il minimo danno, anzi generando una crescita nel biennio di un punto e mezzo di Pil. Il piano di Giavazzi era di ridurre per un pari importo la pressione fiscale sulle imprese, visto che gli stessi imprenditori nella sua ricerca si erano detti per il 74% favorevoli a perdere incentivi agli investimenti, perché comunque li avrebbero fatti lo stesso anche senza aiuti. Quel documento restò nel cassetto, anche se il Presidente di Confindustria non si disse sfavorevole.

Stabilito che non ci sono scorciatoie per la crescita ma che esiste pur tuttavia un grande problema sociale con sei milioni di famiglie sotto la soglia di povertà, il governo Gentiloni, alla ricerca di fondi per la riedizione della social card e il reddito di inclusione, dopo aver individuato con precisione gli aventi diritto, potrebbe riprendere in mano quel dossier nella prossima manovra, destinando eventuali risparmi direttamente a quegli italiani che sono senza lavoro e non godrebbero di eventuali riduzioni fiscali.

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