Ancora una giornata internazionale contro la violenza sulle donne?

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Oggi ricorre la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, che l’assemblea generale delle Nazioni Unite volle a partire dal 1999.

Il Segretario Generale dell’epoca, Kofi Annan, aprì i lavori della riunione dichiarando stentoreamente che “ Lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità” e così fu deciso che la giornata internazionale sarebbe stata celebrata per  sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema purtroppo ancora oggi molto attuale ed apparentemente sempre irrisolvibile.

Oggi le iniziative per celebrarla si moltiplicano, con motivazioni che ci sono e si rinvengono ovunque, dagli incontri necessariamente webinar a causa del Covid alle mille altre proposte e ai tanti eventi.

Ma la verità è un’altra e l’onestà intellettuale di chi ogni giorno vive ed opera nel settore dell’antiviolenza impone di rivelarla.

Oggi  all’urgenza di tutelare le vittime si è affiancata l’emergenza Covid che tutto fa passare in secondo piano, nonostante le donne muoiano ancora nella maggior parte dei casi per mano violenta del partner.

Negli ultimi mesi una donna che subisce violenza  ha possibilità ancora più limitate di uscire da questa spirale, perché gli strumenti a sua disposizione sono come “sospesi” e di fatto non funzionano, o funzionano male e tardi.

Gli ospedali spesso sono monodedicati al Covid e non è consentito il libero accesso ai pronto soccorso, e neppure i medici di base o i ginecologi dei consultori, che spesso erano gli intercettori di queste realtà, riescono  ad avere il polso della situazione.

I Centri Antiviolenza non possono garantire il supporto che per legge dovrebbero fornire e molti sono chiusi, con i telefoni che squillano a vuoto.

I servizi sociali spesso devono lavorare in regime di smart working e tutto quello che ne consegue, dalle visite domiciliari ai percorsi di sostegno alla genitorialità, tutto naviga ancora più a vista nel magmatico mare della burocrazia, ancor più rallentata dai mille limiti imposti per fronteggiare la pandemia.

Le Forze dell’Ordine si devono occupare di tanto altro. Ci sono le manifestazioni nelle piazze ed i serrati controlli sul territorio per l’osservanza dei DPCM, di conseguenza se si chiama il pronto intervento, specie nei territori di provincia dove ordinariamente la violenza silenziosamente sfocia in tragedie, si fatica ad ottenere l’arrivo immediato di una pattuglia.

E per sporgere una querela o una denuncia, oggi non è possibile recarsi liberamente nelle procure dei tribunali, neppure per gli avvocati specializzati, ai quali viene chiesto di prenotare l’ingresso ad orari e giorni precisi fra mille altri impegni professionali, dalle udienze agli atti da redigere.

Molte udienze non si tengono, e quando vengono celebrate, vengono spesso rinviate ad anno nuovo, con la speranza che fra qualche mese tutto sarà tornato a normalità e più agevole.

Non è colpa di nessuno, e non si tratta di fare sterile polemica.

Ma non è neppure vero che la violenza tra le mura domestiche sia aumentata, perché il livello è sempre drammaticamente quello, mentre di certo è cresciuto il bisogno di protezione delle vittime.

Un bisogno al quale non si riesce  a rispondere, e questo è il dato veridico che occorre ammettere.

A tutto questo si aggiunge un’ aggravata sottovalutazione del fenomeno, sulla base della quale oggi si tratta di un fatto di violenza come  in una puntata di una fiction, concentrandosi sulla persona del colpevole quasi a volerlo umanizzare mediante immagini e parole specifiche, e sollecitare così i peggiori sentimenti di chi legge o assiste.

Le parole, dalle quali la violenza parte sempre, diventano così muri invalicabili, perché narrare questi fatti con superficialità di racconto o peggio manipolandoli per ridurre il senso critico collettivo, significa contribuire alla subcultura violenta.

L’attuale sempre emergente sistema di rappresentazione dei fatti di violenza porta infatti a considerare uomini e donne come entità contrapposte l’una all’altra, creando solo conflitto sociale e culturale.

Basti pensare all’unico programma della televisione pubblica che ripercorre le storie delle vittime di femminicidio, che si presenta con un titolo formato da un ossimoro di due parole – Amore Criminale – l’una che esclude l’altra, e nel riprodurre i momenti della storia che affronta, adotta modalità espressive alquanto discutibili, dai dettagli sulla vita privata della vittima, al richiamo compiaciuto dei momenti più scabrosi e raccapriccianti dell’evento mortale.

Non una parola per far riflettere chi guarda sul meccanismo antisociale del femminicidio, delle reali cause per cui l’uomo decide di eliminare una donna proprio perché è donna, e tutto assume le sembianze, come detto sopra, di una fiction.

La  violenza sulle donne, quindi, è possibile perché viene esercitate su persone a cui non è per legge riconosciuta la stessa dignità esistenziale delle altre e che non vengono protette e tutelate come sarebbe per legge previsto.

Neppure a partire dalle parole con cui se ne parla e se ne scrive.

A loro la giustizia non è concessa.

Sono donne che non assumono la caratteristica di vittima quando subiscono né quando denunciano, e non vengono realmente tutelate nonostante la previsione di codici dai mille colori, ma sono costrette a farsi credere sempre, dall’ingresso al Pronto Soccorso all’ultima sentenza in Cassazione, ed oggi persino dall’opinione pubblica.

È una violenza subdola, che non si mostra visivamente con lividi e sangue, ma pervade maggiormente e pone le basi per il dilagare di un comune pessimo sentire.

Parole spesso utilizzate dai media solo per soddisfare la curiosità morbosa dei particolari più scabrosi, che indulgono nel descrivere le scene del crimine, la posizione dei corpi, il sangue sui vestiti, ma non si soffermano mai a richiamare la necessaria funzione educativa che l’informazione pubblica deve perseguire, facendo riflettere sul perché un uomo decide di annullare la vita della propria compagna, della madre dei suoi figli e spesso anche di questi ultimi.

Una informazione che raramente menziona il delirio di distruttiva onnipotenza che assale il violento, quando sente di aver perso il possesso di quanto credeva fosse per legge, per natura, e per diritto congenito una “roba” di sua proprietà.

Parole che addirittura lambiscono la giustificazione di un femminicidio, quando sui giornali o nella cronaca giudiziaria si leggono ed ascoltano termini come “raptus” o “sconvolgimento emotivo”, per indicare un omicida che spesso viene fatto descrivere dai vicini di casa come una persona per bene, un vero lavoratore, un brav’uomo così legato alla famiglia.

Come quelle utilizzate da un giornalista per narrare di un soggetto arrestato per stupro continuato  per ore e spaccio di cocaina, descritto sul Sole24ore come imprenditore purtroppo “fermato” nella sua scalata al successo.

Oppure come oggi,  nella ennesima “perla di banalità ” regalataci da Vittorio Feltri sul suo giornale proprio alla vigilia della celebrazione di domani, nella quale  racconta sempre dell’imprenditore Genovese come di uno che “ spingeva abitualmente l’acceleratore sulla strada del piacere” e di contro, per s- parlare della vittima,  una ragazza appena maggiorenne, scrive “ Quanto alla povera Michela mi domando: entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite, cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha pensato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe dovuto rimettersele ?”.

Parole che inammissibilmente riconducono la violenza subita ad una libera scelta della donna, e veicolano il messaggio secondo cui “Se non avesse accettato, non sarebbe accaduto” ovvero  “Se fosse rimasta a casa”, “Se non lo avesse provocato”  fino ad arrivare alla descrizione colpevolizzante della vittima, perché in fin dei conti, se l’è voluta.

E così la violenza contro le donne oggi viene quotidianamente sdoganata  a partire dalla comunicazione che se ne fa, e fra il disinteresse qualunquista e la preoccupazione del Covid, si insinua nelle sinapsi della gente comune, degli spettatori di certa TV, di chi legge certi giornali mentre si reca a lavoro, ma soprattutto dei più vulnerabili e recettivi, ovvero i giovani che saranno gli uomini e le donne di domani.

Destinatari nei quali, come una goccia che scava nella roccia, si insinua la convinzione che in fondo, se una donna viene picchiata, maltrattata o violentata, appunto se l’è cercata.

Oggi, in definitiva, alla impossibilità pragmatica di proteggere le vittime  si aggiunge una violenza verbale che rende inutilmente retoriche le celebrazioni della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, almeno fino a quando una vittima verrà trattata sui media come una colpevole provocatrice delle condotte maschili.

Almeno fino a quando non sarà chiaro a tutti, come scrisse Margaret Atwood che gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro, mentre le donne che gli uomini le uccidano.


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