«Diecimila persone ai funerali del compagno Paolo Cappello» titolava l’Avanti del 25 settembre 1924; «Le violenze fasciste della domenica» evidenziava in prima L’Operaio del 16 settembre 1924; «Una piccola storia che sarà la storia» rimarcava a tutta pagina La parola socialista del 12 ottobre dello stesso anno. Ma la storia di Paolino Cappello è rimasta piccola e non ha fatto la storia. La sua morte avvenuta a Cosenza il 21 settembre di 97 anni fa è uno di quei foschi fatti che nemmeno il crollo del regime fascista e il successivo avvento della democrazia riuscirono a chiarire.

Il ventennio fascista sdoganò una licenza d’uccidere che in quegli anni funesti ha spezzato le vite di uomini e donne, spesso giovanissimi, uniti da una passione che parla di giustizia, libertà e fraternità. Una guerra spietata ai danni di oppositori del regime, di cuori rossi che si batterono fino alla morte contro la dittatura. E il muratore cosentino del quartiere proletario della Massa fu uno di questi. Ma tre gradi di giudizio non furono sufficienti ad assicurare alla giustizia i responsabili.

L’omicidio di Cappello resta tuttora impunito. Lo storico Matteo Dalena, con i metodi propri della storia criminale, della storia sociale e della microstoria, cerca di far luce su quest’altro mistero di Italia in Quel garofano spezzato (Le pecore nere 2021, pagg. 288, 18 euro). Dalena attraversa gli itinerari di vita di questo trovatello, «figlio di ignoti», allevato in un quartiere popolare affacciato sul Crati e cresciuto nel primo dopoguerra nei bassi di una città ebbra di vino e vendetta.

Nel garbuglio di vicoli alla Massa o nelle pericolose cantine di via Fontana Nuova e di Contrada Caricchio si scoprono i germi di quel fascismo violento che diveniva stato autoritario, imprigionando nel terrore un intero popolo. E il corpo senza vita dell’antifascista Cappello, disteso su un tavolaccio al lume di quattro ceri, è il macabro emblema del passaggio del fascismo dalle parole ai fatti anche a Cosenza. Erano squadre armate di coltelli, bastoni e rivoltelle quelle che andavano in giro per l’antica città dei Bruzi all’inizio degli anni Venti, ronde paramilitari a caccia di «sovversivi», «comunisti», «deviati».

Una escalation fatta di minacce, agguati, scudisciate, arti spezzati, saracinesche di sedi sindacali e di partito incendiate, giornali bruciati nella pubblica piazza. «Insieme a quella del giovane studente Raffaele de Luca nel 1921, l’omicidio di Cappello rappresenta il culmine di un triennio in cui pochi giovani vestiti di nero, lautamente foraggiati da un sistema di convivenze che garantì loro impunità anche dopo la caduta, seminavano il panico in tutta la provincia mostrando muscoli e gengive» scrive Dalena. «Dopo morto mettetemi un garofano rosso all’occhiello» mormorò Paolino Cappello prima di morire a Pietro Mancini, primo deputato socialista di Calabria, avvocato di Malito e padre di Giacomo, futuro leader socialista. E c’era anche il piccolo Giacomo, 8 anni, insieme al padre, nell’unica corsia dell’ospedale civile dove Cappello la mattina del 21 settembre 1924 si spense a soli 34 anni.

«Era giorno di riposo e gli operai giunti a gruppi compatti da Massa, Spirito Santo, Casali, dai Rivocati, dalle fabbriche di sale, mattoni, tannino e dalle tipografie si assembravano in attesa dell’apertura dell’obitorio. Poco dopo le nove la folla era immensa e ci sarebbero voluti tre piazzali per contenerla. Di camicie nere neppure l’ombra, dileguate». Il suo calvario, durato una settimana «da domenica a domenica», dal ferimento alla morte colpì un’intera città e ai suoi funerali parteciparono diecimila persone secondo l’Avanti, duecento per la questura. Malgrado le testimonianze schiaccianti il presunto reo Antonio Zupi (uno dei fondatori del fascio cosentino e che nel 1922 aveva marciato su Roma) non fu mai condannato.

Dalena con una prosa avvolgente e coinvolgente fa rivivere nel suo libro questo operaio ben presto dimenticato. «Paolo, per i compagni semplicemente Paolino, era un uomo ‘infame’, nel senso dell’enorme distanza che lo separò dalla fama, dalla ribalta, dal palcoscenico della storia. Un’esistenza marginale, minima. Se non fosse per questa morte violenta e dalla forte connotazione politica, il suo nome e quegli esili dettagli della sua linea biografica sarebbero rimasti sepolti nei baratri della storia».