Nadeesha Uyangoda: «Il razzismo, in Italia, c’è ancora: lo subisco ogni giorno»

Nel suo libro, «L’unica persona nera nella stanza», l’autrice ha raccontato la sua esperienza di italiana di origini straniere
Nadeesha Uyangoda «Il razzismo in Italia cè ancora lo subisco ogni giorno»

«Io sono la mia pelle, i miei capelli, il mio nome, sono le tradizioni dei miei genitori. Ho sfregato via quanto di me era possibile, eppure la razza è rimasta con me – nel mio passaporto che sembrava non superare mai i controlli di ingresso in aeroporto, nelle ispezioni «casuali» oltre le casse automatiche dei supermercati, nel tu dell’impiegato di banca che ritornava al lei col cliente successivo».

Nadeesha Uyangoda, che è nata in Sri Lanka, ma che vive in Brianza da quando aveva sei anni, ne L’unica persona nera nella stanza - pubblicato da 66thand2nd -, ha raccontato la sua esperienza di italiana di origini straniere, per spiegare quanto razzismo si respiri (e si subisca) ancora nel nostro Paese. Il suo libro sarà presentato giovedì 24 giugno alle 22 alla libreria Ultima Spiaggia, sull’isola di Ventotene, durante il festival letterario Gita al Faro.

Dal suo libro risulta chiaro che sostenere che in Italia il razzismo non esista, o non esista più, sia un modo per banalizzare e minimizzare una problematica ancora attuale.«Sì, il razzismo è esistito ed esiste tuttora in Italia, come in tutti i Paesi occidentali, e dire che non è così è una forma di autoassoluzione che non tiene conto dei corsi e dei ricorsi storici. Oggi si tende a parlare di razzismo come aggressione fisica, ma non è solo questo: il razzismo è sistemico, e si insinua nella quotidianità».

Qual è l’ambiente, tra quelli che ha frequentato, in cui si è sentita più a disagio?«Ad esempio, osservare quello che accade in televisione mi imbarazza molto: spesso a incarnare il razzismo sono esponenti della politica che, invece, dovrebbero rappresentare tutti i cittadini. Ma è il razzismo negli ambienti scolastici a infastidirmi più di tutto: la scuola è un luogo di formazione e i bambini sono i cittadini italiani del domani. Oggi, rispetto al passato, le classi più multiculturali e multietniche, ma in alcune scuole accadono ancora episodi di esclusione. Ho incontrato una ragazza, figlia di immigrati nordafricani, che mi ha raccontato che, in aeroporto, mentre partiva per una gita scolastica all’estero, le è stato detto di mettersi nella fila dei cittadini non UE».

Sui bambini il razzismo ha un effetto ancora più violento.«Sì: non vedersi rappresentati in letteratura, in televisione, nei cartoni animati, è qualcosa di tragico. Un adulto può essere capace di superare le barriere e immaginare storie alternative, ma a un bambino che non riconosce se stesso nella cultura in cui vive, è come se venisse detto che non esiste o che la sua estetica e i tratti somatici non sono validi».

Nel suo libro racconta di un dibattito politico, in televisione, che le ha fatto dire che «non c’è una fazione politica che sappia parlare degli italiani di origine straniera, che sappia chi siano». Come si potrebbe affrontare l’impreparazione di tanti politici italiani?«Intanto facendo politica dal basso, a partire dalle periferie, poi garantendo una rappresentanza politica che abbia al suo interno anche minoranze etniche. Ma questo non avviene».

«Ah, ma sei praticamente italiana». L’hanno detto a lei, e ad altri italiani di origine straniera, come fosse una «promozione», una legittimazione.«Sì, e mi chiedo cosa significhi. Trovo curiosa la percezione per cui le persone di origine straniera debbano essere “legittimate” in questo modo. Succede in due casi: quando la cultura di origine viene abbattuta e si viene quindi completamente assimilati, o quando si ha alle spalle una storia così straordinaria che fa sì che ci si “meriti” di essere “praticamente italiani”».

Invece a lei come piacerebbe essere definita?«Italo – e qualcosa. Italo – tunisino, italo – egiziano, italo cinese e via dicendo sono definizioni che funzionano bene, che danno idea del dualismo di una persona, che non ha mai un’identità monolitica».

Qual è la frequenza con cui subisce forme di razzismo?«È quotidiana, perché a quelle che subisco io si somma anche quello che accade agli altri. Ad esempio, mi capita di dover gestire episodi che riguardano mia mamma, che non ha la mia stessa padronanza della lingua e non sempre ha strumenti immediati per difendersi. È un razzismo, questo, che mi fa doppiamente male. In questi casi, le seconde generazioni possono essere utili mediatori».

I razzisti, oggi, fanno ancora male o risultano più che altro caricature fastidiose?«Un po’ entrambe le cose. In Italia si giustificano ancora certe persone perché “ignoranti” o “di altra generazione”. In realtà, a forza di giustificare, si lascia che si alimentino stereotipi dannosi che causano mali comparabili a una violenza fisica e che hanno un impatto sulla vita delle persone di minoranza etnica».

Lei sente sempre la necessità di difendersi dal razzismo diretto e indiretto, o sceglie anche la strada della noncuranza?«Per carattere personale e per esasperazione, a volte, scelgo la noncuranza: a volte non si può instaurare un dialogo con tutti. Bisogna scegliersi le proprie battaglie».

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