22 Mar 2024

Bitcoin: più bolla che oro digitale?

La madre delle criptovalute non ha ancora le caratteristiche di moneta o asset stabile. Finché ciò non accade, con il suo prezzo cresce l’instabilità finanziaria. Ecco perché.

Bitcoin è di nuovo in ascesa. Grazie alla crescita esponenziale delle sue quotazioni, ha riconquistato le prime pagine dei quotidiani economici, e non solo. All’inizio di questa settimana, il suo prezzo aveva perfino superato la soglia record di 70.000 dollari, segnando un aumento del 70% da gennaio 2024 e di circa il 200% sull’arco dell’ultimo anno.

L’irresistibile ascesa di bitcoin

Per avere un’idea delle dimensioni che ha assunto il fenomeno, basti pensare che l’attuale controvalore complessivo dei bitcoin in circolazione, pari a circa 1.300 miliardi, equivale quasi a tutto l’argento del mondo ed è addirittura il doppio della capitalizzazione della Borsa Italiana. Nell’ultimo anno, la “creazione di valore” in bitcoin, derivante dalla coniazione di nuovi token ma soprattutto dall’incremento di prezzo di quelli esistenti, è stata pari a circa 1.000 miliardi di dollari, ossia a circa la metà del PIL generato nel 2023 in Italia.

Questi risultati sono tanto più sorprendenti se confrontati con l’andamento dei mesi precedenti. L’annus horribilis del 2022, segnato dal collasso dell’ecosistema terra-luna e dalla bancarotta di FTX, uno dei più grandi exchange di criptovalute al mondo, era stato interpretato da molti osservatori come l’inizio della fine di bitcoin. In effetti, la madre di tutte le criptovalute aveva perso il 65% del suo valore attestandosi ad un prezzo di circa 17.000 dollari a fine 2022. Già a partire da inizio 2023, tuttavia, il bitcoin era stato protagonista di una graduale ripresa, che ha subito una accelerazione decisa nel corso dell’ultimo trimestre.

A questo punto, a fronte dei nuovi successi, ci si comincia a chiedere se siamo di fronte all’ennesima fiammata speculativa o se bitcoin abbia finalmente raggiunto la maturità.

Le ragioni dietro al nuovo rally

Per provare a rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e interrogarsi sui motivi dietro l’impennata del prezzo di bitcoin. Gran parte degli analisti concorda nell’attribuire un ruolo decisivo al fatto che, lo scorso 10 gennaio, la Securities and Exchange Commission (SEC) che vigila sui mercati finanziari negli Stati Uniti (in sostanza, la Consob americana), ha autorizzato la quotazione di undici Exchange Traded Funds (ETF) su bitcoin. Di che cosa si tratta? Gli ETF sono fondi d’investimento le cui quote sono negoziate in borsa e replicano fedelmente l’andamento di una determinata classe di attività o di un indice di riferimento. In sostanza, ogni fondo è costituito da un paniere di titoli, in proporzioni che rispecchiano la composizione dell’indice di riferimento. L’atteggiamento mantenuto finora dalla SEC era stato estremamente prudente, di fatto rifiutando o rinviando qualsiasi richiesta di quotazione di ETF che investisse direttamente su bitcoin. Il cambio di rotta della SEC, però, avrebbe facilitato un’enorme raccolta di liquidità proveniente soprattutto dagli investitori istituzionali. Questi ultimi, infatti, sono impossibilitati ad investire direttamente in bitcoin a causa delle regole particolarmente stringenti che devono seguire, ma grazie agli ETF, possono ottenere rendimenti che rispecchiano l’andamento del prezzo di bitcoin. L’ingresso degli istituzionali spinge in alto il prezzo di bitcoin perché gli emittenti degli ETF devono comprare bitcoin da mettere a garanzia dell’investimento. In effetti, come riferisce Vito Lops sul Sole 24 ore, la domanda verso questi ETF è risultata finora superiore alle aspettative. In poco più di un mese, infatti, sono stati raccolti quasi 10 miliardi di dollari netti. Fra questi, spicca senza dubbio il dato su BlackRock, il più grande asset manager al mondo con masse gestite di circa 10.000 miliardi di dollari, che secondo BitMEX Research, deteneva, alla data dell’8 marzo, oltre 197.000 bitcoin, per un controvalore di oltre 13,5 miliardi di dollari, attraverso il suo IShare Bitcoin Trust.

Un’altra ragione che si adduce per spiegare l’incremento del prezzo del bitcoin è il cosiddetto meccanismo dell’halving. Si tratta di un processo integrato nel funzionamento stesso del bitcoin che prevede il dimezzamento delle emissioni giornaliere ogni quattro anni. Il prossimo è programmato per metà aprile e comporterà la riduzione a 450 unità al mese. La presenza di una offerta rigida a fronte di una domanda crescente favorirebbe quindi un rialzo del prezzo di bitcoin.

Un terzo fattore che spiegherebbe la risalita di bitcoin, infine, avrebbe a che fare con la politica monetaria. Dopo il periodo di restrizione monetaria, infatti, i mercati starebbero iniziando a scontare un allentamento da parte delle banche centrali. Fra l’altro, alcuni commentatori fanno notare come il notevole incremento del deficit USA, stia facendo di fatto notevolmente aumentare la liquidità in circolazione e, grazie agli ETF, una quota piccola ma crescente di quest’ultima si dirige sul mercato dei bitcoin.

Bitcoin: moneta, investimento o bolla?

Con l’approvazione degli ETF, infatti, bitcoin ha acquisito la veste giuridica adeguata per avere accesso ai salotti buoni della finanza. Ma cosa c’è sotto il vestito? L’impennata del prezzo di bitcoin riflette le variazioni relative della domanda e dell’offerta sul mercato, ma non dice niente riguardo al suo effettivo valore. Il funzionamento dei mercati finanziari, ovvero la loro capacità di assolvere alla funzione precipua di sostenere la crescita dell’economia, poggia sull’ipotesi che, aldilà delle oscillazioni temporanee, il prezzo dei titoli rifletta a lungo andare la produttività degli investimenti reali sottostanti. Possiamo parlare, alla stessa stregua, di una produttività di bitcoin, di un suo contributo all’incremento del benessere economico della collettività e, in questo senso, di un suo valore intrinseco?

Nella misura in cui bitcoin è assimilato a una moneta, la domanda potrebbe apparire mal posta. Come insegnano gli economisti classici, il valore d’uso della moneta è tutto nel suo valore di scambio: l’unica sua utilità è nel servire da mezzo di scambio. Ora, però, affinché una moneta possa assolvere adeguatamente alla funzione di mezzo di scambio per acquistare beni o servizi, occorre che il suo valore reale, in termini di quei beni e servizi, sia relativamente stabile. Ciò è ancor più rilevante se si guarda all’uso della moneta come mezzo di pagamento per onorare i debiti, e se si vuole evitare che il peso di quei debiti sia esposto alle oscillazioni del valore della moneta in cui sono denominati. Se chi ha acquistato bitcoin un anno fa si trova oggi il valore del proprio investimento triplicato, chi avesse contratto un anno fa un mutuo in bitcoin si troverebbe oggi triplicato il valore del proprio debito.

Non c’è da meravigliarsi che quasi nessuno utilizzi bitcoin come unità di conto per denominare rapporti finanziari. Ma anche come mezzo di scambio bitcoin è usato in misura assai limitata e quasi esclusivamente da coloro per i quali lo svantaggio della volatilità è compensato dal vantaggio dell’anonimato. Di fatto, si tratta di tutti i soggetti che hanno interesse a detenere e trasferire ricchezza al riparo dal potere pubblico, siano essi le mafie che intendono sfuggire al controllo delle autorità giudiziarie o i cittadini onesti che vogliono sottrarsi alla repressione di un regime autoritario. Per tutti costoro indistintamente bitcoin può rappresentare una forma di moneta internazionale che varca le frontiere senza chiedere il permesso a nessuno, consentendo di aggirare tanto i controlli sui movimenti dei capitali quanto le sanzioni economiche. Si tratta di utilizzi per il momento limitati a poche circostanze e a pochi Paesi, ma che potrebbero diventare tanto più diffusi, quanto più si estendono per motivi commerciali o bellici le restrizioni ai sistemi di pagamento.

Nel frattempo, proprio a causa della estrema volatilità del suo valore, sono pochi oggi, anche fra i fautori di bitcoin, a sostenere che il suo valore consista nell’uso come moneta. Si preferisce, piuttosto, assimilare bitcoin al materiale che per lunghi secoli e fino a pochi decenni fa si è incaricato di dare corpo alla moneta, ossia all’oro. Dell’oro bitcoin condivide il pregio della scarsità: come è noto, infatti, il protocollo informatico di bitcoin è costruito in maniera tale da farne aumentare la quantità a ritmi sempre più lenti in maniera da fermarsi asintoticamente sotto la soglia dei 21 milioni di unità. Bitcoin è programmato per essere artificialmente scarso, come scarsi sono in natura i metalli preziosi. La sua qualità consisterebbe proprio nella quantità (limitata). Perciò bitcoin si è meritato l’epiteto di “oro digitale”.

Tuttavia, ad una più attenta considerazione, anche questo argomento mostra alcune falle tanto sul piano logico quanto sul piano empirico. Innanzitutto, sempre per rifarsi agli economisti classici, la scarsità è una condizione necessaria, ma non sufficiente affinché si dia valore: non basta che un bene sia scarso, occorre anche che sia utile. La scarsità non può essere invocata per spiegare l’utilità. Come osservava già Gasparo Scaruffi alla fine del ‘500, l’oro non è prezioso perché è raro, ma è raro perché è prezioso. Il prezzo dell’oro come mezzo di scambio e come riserva di valore si fonda sul suo pregio come materia prima per la produzione di monili e ornamenti, spesso carichi di valore simbolico e rituale. L’utilizzo monetario del metallo prezioso trova un fondamento nei suoi utilizzi industriali, oggi come cinque secoli fa. In effetti, oltre la metà della produzione annua di oro è destinata alla gioielleria e ad altri impieghi industriali (grafico 1) e circa il 60% dell’oro ha la forma di collane, braccialetti e altri oggetti di oreficeria, mentre solo una minoranza è costituita da monete o lingotti.

Possiamo parlare, alla stessa stregua, di applicazioni industriali di bitcoin? Certamente. Come sappiamo, prima ancora di ogni sua pretesa di assolvere a funzioni monetarie e finanziarie, bitcoin costituisce un’innovazione tecnologica. Dentro bitcoin c’è una tecnologia, la distributed ledger technology (tecnologia del registro distribuito) che consente la registrazione immutabile di dati senza bisogno di un depositario centralizzato, la creazione di oggetti unici non replicabili, la proprietà diffusa delle informazioni in capo ai titolari. In gioco c’è la possibilità di sottrarre il mondo dei beni e dei servizi digitali al controllo oligopolistico dei colossi che oggi basano il loro potere di mercato e i loro profitti esorbitanti sul controllo di una massa enorme di dati, dai social media alle piattaforme di streaming.

In definitiva, dunque, possiamo intravedere due forme diverse e alternative di supporto al valore di bitcoin. Finché prevale la concezione finanziaria di bitcoin come forma d’investimento, l’unica cosa che può sostenerne alla lunga il prezzo di mercato è la capacità della tecnologia sottostante di creare valore aggiunto, mettendo a disposizione del sistema produttivo una infrastruttura che consente di registrare informazioni in maniera immutabile e di regolarne l’utilizzo, nel rispetto della riservatezza, senza affidarle a un gestore centralizzato. Se e quanto la blockchain possa contribuire a questo scopo è, in definitiva, l’unico fattore che possa dare valore sociale ed economico a bitcoin come asset. Se, invece, dovesse prevalere la concezione monetaria di bitcoin come mezzo di scambio, bisognerebbe che il suo valore fosse stabilizzato da un adeguato assetto istituzionale, per esempio dal consolidamento di pratiche volte a utilizzarlo come garanzia e strumento di settlement all’interno di sistemi di pagamento (quali i lightning networks).

Nel frattempo, la quotazione degli ETF che alimenta l’attuale impennata del prezzo di bitcoin non costituisce in alcun modo un contributo in nessuna delle due direzioni. Anzi, nella misura in cui agevola l’acquisto di posizioni in bitcoin, aumentandone la liquidità, solleva l’investitore dall’onere di preoccuparsi della effettiva produttività di lungo termine dell’investimento sottostante. Il varo degli ETF rappresenta per i bitcoin una sorta di cartolarizzazione che, come già avvenuto per i mutui subprime, esonera l’investitore da un’attenta valutazione del sottostante e può contribuire ad allontanare il valore finanziario dal valore reale, incrementandone la volatilità. Lungi dal rappresentare un avvicinamento alla maturità di bitcoin, come tecnologia informatica o di pagamento, l’unico effetto strutturale che produce, a misura che allarga la platea degli investitori piccoli e grandi, è un incremento del rischio sistemico. Finché magari, nella prossima crisi, per evitare danni maggiori, le banche centrali saranno costrette a comprare bitcoin.

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