Non è dato sapere come si concluderà la vendita che Vincenzo Bacciardi progetta da tempo per liberarsi di Villa la Croce (Villa dei Matti, come la voce corale malignamente la definisce), minuscolo borgo dell’entroterra marchigiano in cui si produce un miele che offre una portentosa fertilità. Con essa zio Vince, trumpiano e giocatore d’azzardo, si vuole sbarazzare di un senso di colpa e delle dicerie sul luogo maledetto in cui vivono i Bacciardi. È chiaro che per la mente allucinata di suo nipote Damiano, vero protagonista della vicenda, l’affare è, per una strana miscela di ragione e allucinazione a carattere religioso, da scongiurare. Alessio Torino in Al centro del mondo (Mondadori, pp. 264, € 18,50) offre un’efficace allegoria dell’ambivalente rapporto che la «social catena» umana instaura con il mondo naturale.

Nei personaggi è condensata tutta la problematicità della relazione: produttiva, nel legame tra lavoro umano, animali e flora (veri personaggi del romanzo), stagioni; riproduttiva, dato che uno dei rovelli del testo è la discendenza familiare e le tare che essa perpetua (Anna, altra abitante del borgo, pensa che Damiano diceva «assurdità perché quel ragazzo era un Bacciardi e i Bacciardi portavano il male»); religiosa, infine, visto che il protagonista è un fervente devoto di Maria – sebbene il suo cattolicesimo, come quello di sua nonna Adele, abbia poco di clericale e ricordi la fusionalità panteistica e superstiziosa della devozione contadina. Ma il dialogo – il conflitto? – in cui in passato si è culturalmente regolato quel rapporto è impazzito: i segni naturali diventano un linguaggio psicotico e imperscrutabile, che ingiunge a Damiano terribili azioni e che confonde le opposizioni su cui l’umanità fa da sempre affidamento. Presente/passato, bene/male, interno/esterno non producono più differenze. È per questo che il Demonio (segno confusivo per eccellenza, «qualcosa che non dava altro segno di esistere se non la propria presenza») ha sede in casa, nascosto nello scantinato al cuore dell’abitazione familiare, ma è anche incarnato negli acquirenti esterni giunti alla contrada per valutarne l’acquisto. Combatterlo o cedervi è davvero una scelta?

Zio Vince conta di dare una risposta troppo umana, – il contratto di vendita – a un problema regolato da forze non appartenenti alla nostra sfera d’intelligibilità. L’impeto della natura, rappresentata secondo la più classica poetica leopardiana («Era una notte stellata di fine aprile, quando la primavera ormai ha imposto la sua malattia che è la vita») è implacabile, e si abbatterà sulle patetiche vicende umane trasformando Damiano, nel finale del libro, in una quercia, la stessa che aveva retto il corpo di suo padre, impiccatosi dieci anni prima.

Così, in una felice rivisitazione della metafora dantesca del suicidio, rivive, collassato in una catacresi (ai propri occhi Damiano si trasforma veramente in un albero), il doppio livello inconciliabile di natura e cultura, la finitudine della tradizione e l’incomprensibile trasformarsi della materia.