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IL MONDO OGGI

Riassunto geopolitico della giornata, con analisi e link per approfondire e ricostruire il contesto.

Il G7 di Londra, il non voto in Palestina e altre notizie interessanti

La rassegna geopolitica del 4 maggio.
Lorenzo TrombettaNiccolò LocatelliFederico PetroniLorenzo Noto
Pubblicato il Aggiornato alle
Carta di Laura Canali.
Carta di Laura Canali. 
IL G7 E UN FEUDO NELL'IMPERO [di Federico Petroni]

È in corso a Londra il primo incontro di persona da due anni fra i ministri degli Esteri del G7, al quale partecipano anche gli omologhi di India, Australia, Corea del Sud, Sudafrica e Brunei (in qualità di presidente dell'Asean).

Perché conta: Il G7 in sé non vale nulla. Non ha mai prodotto alcunché di significativo. Essendo scatola vuota, può diventare palcoscenico sul quale una potenza mette in scena le proprie ambizioni e le proprie necessità, sotto un pesante strato di propaganda.

Così fa il Regno Unito. L'invito esteso ai rappresentanti dei paesi "extra" conferma l'intento britannico di allargare il consesso occidentale all'Indo-Pacifico e di centrarlo sulla difesa della democrazia nel mondo; che fra i partecipanti ci sia pure una monarchia assoluta come il Brunei certifica la natura grottesca della coreografia.

La plateale adesione all'agenda degli Stati Uniti serve a perorare la richiesta di intestarsi una sorta di feudo nell'impero americano. Londra vuole dimostrare alla superpotenza di essere in grado di radunare i suoi satelliti più rilevanti e di discutere alcuni dei dossier più caldi (Libia, Siria, Sahel, Etiopia, Balcani, Myanmar), tali perché insistono o gravitano sulle rotte marittime più importanti al mondo. In questo sforzo non c'è solo la diplomazia, ma pure la disponibilità a usare la forza. Perciò i britannici si stanno proponendo come potenza militare attiva nel Mediterraneo orientale, con diramazioni nel Mar Nero e in Siria-Iraq. A questo proposito hanno annunciato l'impiego degli F-35B di passaggio sulla portaerei Queen Elizabeth in operazioni aeree contro lo Stato Islamico; una pura dimostrazione di forza, in fondo la Siria ha da anni il macabro privilegio di essere passerella in cui le potenze sfoggiano i loro armamenti di punta.

Londra immagina di spendere il credito guadagnato a Washington in due modi. Primo, tenere il regno unito, cioè schivare condanne quando dovrà dire dei no a scozzesi e nordirlandesi. Secondo, dare sostanza al marchio Global Britain, cioè rilanciare la propria influenza all'estero includendo nei salotti buoni i suoi ex possedimenti imperiali (India, Australia, Sudafrica), alla cui porta s'immagina di bussare per pretendere contropartite di tanto invito.

Sogni mirabolanti. Ma il compito del G7 è metterli in vetrina. L'etichetta dell'evento diplomatico impedisce di sbugiardarli.

Per approfondire: Global Britain guarda all'Indo-Pacifico


LA PALESTINA NON VOTA [di Lorenzo Trombetta]

Il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha annunciato il rinvio sine die delle attese elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste rispettivamente il 22 maggio e 31 luglio prossimi.

Perché conta: Ufficialmente il motivo del rinvio è il rifiuto delle autorità israeliane di far svolgere le consultazioni nel distretto di Gerusalemme. A 15 anni dalle ultime elezioni nei territori palestinesi, la notizia costituisce un indubbio vantaggio per chi è al potere da lungo tempo, come appunto Abu Mazen e i suoi fedelissimi nell’Autorità nazionale palestinese. Oltre che per Israele, che ha nello stesso Abbas il cliente più fedele della Cisgiordania.

Si trattava di una tornata elettorale fortemente attesa dalla maggioranza dei palestinesi, con 1.400 candidati per 132 seggi, 400 delle quali donne e quasi il 40% con un’età inferiore ai quarant’anni. Le consultazioni avrebbero potuto offrire una veste istituzionale e mediatica alle diverse forme di contestazione politica, sociale e culturale indirizzate contro la gerontocratica leadership palestinese.

Hamas ha condannato la decisione, ma in fondo rientra fra quanti beneficiano del rinvio: governa di fatto la Striscia di Gaza e aveva già trovato un accordo con Abbas. Gli unici a uscirne realmente penalizzati sono appunto i palestinesi della Striscia e della Cisgiordania. Così, al di là della loro retorica ufficiale pro-elezioni e a favore del cosiddetto “rinnovamento democratico”, Stati Uniti e paesi europei continueranno ad affidarsi ai medesimi attori di sempre che gestiscono lo status quo regionale: Israele e Abu Mazen.

Pur essendo fortemente precaria, è la stabilità cercata da tutte le parti (egemoni) dell’equazione.

Per approfondire: Nessuna aspettativa sulle elezioni in Palestina


GLI AIUTI AL/CONTRO IL VENEZUELA [di Niccolò Locatelli]

Uno studio dell'ispettore generale di Usaid pubblicato ad aprile ha messo in luce gli errori commessi dagli Stati Uniti nella tentata e fallita consegna di aiuti umanitari al Venezuela del febbraio 2019, quando era appena iniziata l'offensiva dell'amministrazione Trump contro il regime di Nicolás Maduro. Tra questi: l'uso di un cargo militare invece di alternative private più economiche, l'invio di razioni alimentari inadatte alle esigenze dei bambini venezuelani, il coordinamento quasi nullo con le agenzie delle Nazioni Unite operative nel paese.

Perché conta: Per il contenuto e il tempismo della pubblicazione.

Lo studio conferma che il movente principale degli aiuti umanitari non è l'amore verso il prossimo, ma la possibilità di trarre un vantaggio geopolitico dalle difficoltà degli altri paesi. Anche a costo di ostacolare la consegna degli aiuti stessi, come accaduto nel caso in questione. Le scelte errate di Donald Trump sono ascrivibili solo in parte al personaggio: gli Stati Uniti, come qualsiasi potenza consapevole, quando "aiutano" gli altri paesi in realtà aiutano sé stessi. O almeno ci provano.

Il rapporto di Usaid è stato pubblicato in un momento in cui, dopo i primi mesi silenziosi della presidenza Biden, si stanno muovendo le acque tra Venezuela e Usa. Alcune decisioni recenti o incombenti possono preludere alla ripresa del dialogo tra i due Stati e tra sostenitori e oppositori di Maduro.

Il regime ha concesso gli arresti domiciliari ai dirigenti venezolano-statunitensi dell'impresa petrolifera Citgo in carcere dal 2017, ha permesso al Programma alimentare mondiale di tornare a operare nel paese come chiesto da Washington e potrebbe inserire dei rappresentanti dell'opposizione nel rinnovato Consiglio elettorale nazionale. Il successore di Hugo Chávez in questi anni ha dato prova più volte di essere in grado di guadagnare tempo, dividere il fronte dei suoi avversari e bluffare anche nei confronti dei mediatori. Dalla Casa Bianca fanno sapere di aver notato i “segnali”, ma di attendersi azioni concrete.

Il rinvio del viaggio in Venezuela del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin (già nunzio apostolico nel paese latinoamericano), ufficialmente per cause di forza maggiore legate al Covid-19, non è invece un buon segno per i sostenitori del dialogo.

Il canale vaticano e quello statunitense non sono però sovrapposti, visto che hanno obiettivi diversi. Il papa, a prescindere dalle simpatie di Francesco per il populismo chavista, ha a cuore la condizione dei fedeli cattolici; il presidente degli Stati Uniti, a prescindere dal ridotto anticastrismo di Biden, punta nel migliore dei casi a disfarsi di un alleato regionale di potenze rivali (Russia e Cina) e nel peggiore a evitare che la crisi anche migratoria venezolana si riverberi sugli stessi Stati Uniti.

Per approfondire: Venezuela, la notte dell'Alba


SPARI IN ASIA CENTRALE [di Davide Cancarini]

Alla fine della scorsa settimana, le Forze armate di Tagikistan e Kirghizistan si sono confrontate militarmente nella zona della Valle di Fergana. Lo scontro ha causato oltre 40 vittime e migliaia di sfollati. Poi si è arrivati a un cessate il fuoco cui è seguito un progressivo ritiro dei contingenti dall’area.

Perché conta: La disputa sui confini in Asia Centrale, che si trascina dalla fine dell’Unione Sovietica, è tornata a infiammarsi.

La crisi è esplosa per il controllo di un bacino idrico, ma la realtà sul terreno parla di tensioni interetniche e territoriali acuite dalla povertà e dai nazionalismi messi in campo dalle rispettive leadership. Anche se la propaganda di entrambe insiste strenuamente sul concetto di sovranità territoriale, Dušanbe e Biškek non cercano un conflitto aperto perché hanno altre priorità interne. Lo stesso interesse è presente in attori regionali del calibro di Uzbekistan e Kazakistan, che hanno messo in campo tutto il loro peso diplomatico per giungere a un epilogo incruento il più rapidamente possibile.

Stupisce invece l’assenza di Russia e Cina. Se Pechino si caratterizza per un atteggiamento improntato alla prudenza in situazioni del genere, da Mosca ci si attendeva un ruolo più proattivo. Tanto più se gli scontri sono deflagrati quando era appena terminata una riunione dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza difensiva a guida russa a cui aderiscono anche Tagikistan e Kirghizistan) svoltasi proprio a Dušanbe. È vero che il Cremlino dispone di una presenza militare in entrambi i paesi che gli garantisce un certo margine di influenza sugli eventi, senza doversi esporre direttamente. Alla luce delle molteplici crisi che si aprono ormai regolarmente nello spazio post-sovietico, dalla Bielorussia al Nagorno Karabakh fino al Kirghizistan, dalla Russia ci si sarebbe comunque aspettata un’azione diplomatica sicuramente più incisiva nel suo cortile di casa.

Per approfondire: L'Italia riscopra l'Asia Centrale


LA TURCHIA IN LIBIA [di Lorenzo Noto]

I ministri della Difesa e degli Esteri della Turchia si sono recati lunedì in visita a Tripoli. Il primo ha incontrato il capo di Stato maggiore libico, il secondo la sua controparte. La visita giunge circa un mese dopo la convocazione del governo libico ad Ankara.

Perché conta: Per il capitolo Italia-Turchia e la ricostruzione dell’ex Libia. Il duello tra Roma e Ankara ha un elemento decisivo comune: la ricerca di fiducia nel rapporto con gli americani.

Il congelamento dei conflitti mediterranei da parte di Ankara (vedi i colloqui esplorativi, fallimentari, con Grecia e Cipro, la tregua con l’Egitto, la mano tesa a Israele) è un segnale rivolto a Washington. Raggiunti gli obiettivi di breve periodo - stanziamento in Tripolitania, contenimento dell’asse egiziano-emiratino, sabotaggio dei piani dell’alleanza del gas del Levante - la Turchia vuole dimostrare alla superpotenza di essere un alleato fondamentale in funzione anti-russa, dal Nord Africa al Mar Nero.

Allo stesso modo l’Italia ha bisogno degli americani per rivendicare il proprio fisiologico ruolo nel Mediterraneo centrale. Roma è priva sia dell'appoggio tedesco, visto che Berlino vuole usare i turchi come ponte per connettere la propria industria manifatturiera ai mercati dell'Africa subsahariana; sia di quello francese, visto che Parigi punta a contenere la proiezione mediterranea di Ankara e a rimpiazzarci nello Stretto di Sicilia.

Così, mentre l'Italia annuncia l’imminente riapertura del consolato a Bengasi, la Turchia ribadisce di essere l'unica intestataria e garante della sicurezza nazionale libica - come aveva già voluto dimostrare escludendo Roma dal recente vertice con Tripoli e La Valletta proprio sul tema della sicurezza del Mediterraneo centrale.

Per approfondire: Italia-Turchia: un nuovo canale per Istanbul e noi


LIMES NERD Gli anniversari geopolitici del 4 maggio