Ancora negli anni Settanta le testimonianze della Comune di Parigi, il racconto dell’insurrezione spartachista, le immagini degli esuli repubblicani spagnoli, la foto in cui, a mo’ di trofeo di guerra, era stato immortalato il cadavere del Che, suscitavano sdegno e ammirazione, rammarico e coraggio. Mai, però, impotenza e sconforto. Il lutto era il passaggio rituale di una speranza che, da una visione critica del passato, si protendeva verso il futuro. Quella speranza sembrò dileguarsi, sepolta sotto le macerie del muro di Berlino.

Un cumulo di rovine irrecuperabili – era tutto ciò che, di secoli di lotte, sembrava restasse dopo il 1989, la data che condensava una svolta storica inaugurando l’età dell’ordine liberale. Quel crollo, in cui si inabissava anche l’ultima generazione delle rivolte, sembrava trascinare con sé ogni utopia. Mentre il futuro veniva rimosso nel passato, rinuncia e rassegnazione si accompagnavano al ripiegamento.

MA COME ELABORARE la scomparsa di quel che non aveva neppure avuto luogo? A meno di non prendere il sogno per l’incubo, di non confondere la rivoluzione con la sua perversa metamorfosi, di non ridurre il comunismo alla versione totalitaria dello stalinismo. Identificazione inaccettabile – e perciò lutto inibito. La perdita ha assunto non tanto il senso della sconfitta, quanto quello dell’assenza. Si apriva così il tempo segnato dalla ricerca della rivoluzione perduta. Nella sua ambivalenza «perduta» non vuol dire solo vinta, debellata, ma anche smarrita, abbandonata, sfuggita. Secondo l’itinerario proustiano, questo significa, dopo un iniziale estraniamento, la riscoperta delle potenzialità represse, la liberazione delle promesse tradite.

[do action=”citazione”]Questo autore esoterico, comunista anarchico, collezionista ossessivo, giornalista freelance, intellettuale caotico ha trovato vita postuma a decenni dalla scomparsa[/do]

 

POCHI MESI SEPARANO la caduta del Muro di Berlino dall’anniversario della morte di Walter Benjamin che, in fuga dai nazisti, si suicidò il 26 settembre 1940 a Portbou, il villaggio catalano a ridosso della frontiera francese. Nel 1990, a cinquant’anni di distanza, si commemorava quel filosofo rimasto a lungo ai margini della cultura europea, quell’ebreo tedesco che aveva coniugato in modo singolare marxismo e messianismo. Non era un caso.

L’angelo di Benjamin, con i suoi occhi spalancati, lo sguardo fisso sulle rovine, arrivava al momento giusto – per riconoscere nel progresso il pericoloso mito paralizzante, ma anche per alludere alla possibilità di un arresto messianico, di una chance rivoluzionaria contenuta in ogni istante. Non tutto era definitivamente perduto. I passages di Parigi e soprattutto le tesi Sul concetto di storia diventarono ben presto i testi di riferimento per coloro che, a sinistra, non si lasciavano attrarre né dalle sirene dell’antitotalitarismo né tanto meno da quelle del neoliberalismo. Di più: quei testi furono insieme la leva per resistere all’ondata reazionaria e la risorsa per ripensare radicalmente la sinistra.

IL LUTTO non sarebbe mai andato a buon fine, perché questo avrebbe sancito l’accettazione dell’ordine attuale – senza alternative. Si trattava piuttosto di far implodere la vecchia visione progressista e teleologica che vedeva il socialismo alla fine della storia, di smascherare la socialdemocrazia, pronta al compromesso e all’accomodamento, fino alla graduale scomparsa nell’assimilazione.

Contro la memoria pubblica liberale poteva riaccendersi, attraverso i traumi delle sconfitte, il ricordo della promessa. Il passato poteva illuminare il futuro nell’istante del pericolo: questo insegnava Benjamin, malinconica sentinella messianica che, con i suoi scritti, forniva una bussola per orientarsi nel mezzo della tempesta, nel tempo vuoto del capitalismo avanzato.

Così questo autore esoterico, comunista anarchico, collezionista ossessivo, giornalista free lance, intellettuale caotico ha trovato vita postuma a decenni dalla morte. Dopo aver corso il serio pericolo di diventare una figura dimenticata, è assurto a simbolo di un pensiero che resiste. Ha contribuito a questo riscatto la pubblicazione completa delle sue opere in tedesco – ma ormai anche in molte altre lingue, tra cui l’italiano. Di qui il profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Restano, tuttavia, ancora da scoprire i nessi segreti, i legami sfuggenti, che tengono insieme una filosofia più complessa di quanto in genere si creda.

MA PERCHÉ i suoi scritti hanno un potenziale esplosivo? Anche per la riflessione contemporanea? Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia, dalla vita nevrotica nella metropoli alla letteratura per l’infanzia, dal gioco d’azzardo all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Ma il punto è che, già molto presto, ha presagito gli esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.

E ci ha insegnato che il capitalismo è una religione del debito. Che un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di governance, si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore: quella forma economica, divenuta globale, non è una religione secolarizzata, come riteneva Weber, bensì una religione in senso stretto, forse la più estrema che sia mai stata data. Il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può contare su una «durata permanente».

[do action=”citazione”]Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, il suo terribile lascito ai popoli, il filosofo berlinese presagisce l’indebitamento planetario[/do]

 

Non c’è tregua, né perdono. La pompa sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono inarrestabili. Là dove il tempo è sempre e solo denaro non si distingue più tra il giorno e la notte. Questo culto, che ha annullato persino la settimana, richiede una celebrazione ossessiva. Apparentemente è sempre festa – e invece non lo è mai. Se il culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, che nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa.

«IL CAPITALISMO è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia espiare, ma colpevolizza indebitando». Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, il suo terribile lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non potrebbe essere diversamente per una religione che non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale, che si spaccia per orizzonte ultimo, resta solo la disperazione cosmica. Come nel passato si pregavano gli dei, se ne temeva il volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata è pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del mercato. L’ordine di questa sventura ha la circolarità violenta del mito.

Agli occhi di Banjamin finisce così che Nietzsche, Freud, lo stesso Marx, appaiano i «gran sacerdoti» del culto capitalista, perché le loro teorie ne assecondano un potenziamento – non ne costituiscono la rottura.

LA SUA POLEMICA investe soprattutto la socialdemocrazia, questo «poema mal scritto», questa idolatria della modernizzazione, questa cattiva politica incapace di darsi scadenze. Benjamin guarda al limite estremo, dove si consumerà l’apocalissi ultima del capitalismo. Marx aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. Benjamin oppone la figura speculare del «freno d’emergenza». La rivoluzione è una fenditura nel sempre uguale della storia, è arresto, cesura, interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider di sinistra» alla fronda anarchica.

Il compito che Benjamin ci lascia è ripensare la cinetica rivoluzionaria. A cominciare dal riscatto del passato, dalla riparazione del torto subito dalle generazioni degli sconfitti. Non è possibile mancare l’appuntamento segreto – anche perché questo potere mitico minaccia vivi e morti. Risvegliarsi allora non alla ragione, bensì ai loro sogni, che non sogniamo più, per smascherare quel culto dell’emancipazione infelice, che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata, cioè felice.
Marx prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da progresso.