Da un farmaco per l’ipertensione, possibile aiuto contro il Parkinson

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Immagine di archivio (Getty Images)

Oltre a contrastare la pressione alta, felodipina può stimolare il processo di autofagia, rimuovendo così gli accumuli tossici presenti nel cervello di chi ha sviluppato la patologia 

Il farmaco felodipina, comunemente usato come anti-ipertensivo, potrebbe avere degli effetti benefici nel trattamento delle patologie neurodegenerative, come la malattia di Huntington e il morbo di Parkinson, tutte caratterizzate da un accumulo di sostanze tossiche nel cervello. Lo indicano i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Cambridge, coordinato dal vicedirettore del Cambridge Institute of Medical Research David Rubinsztein, e pubblicato sulla rivista Nature Communications. Conducendo degli esperimenti su alcuni topi e pesci zebra con malattie neurodegenerative, il team ha scoperto che felodipina, oltre a contrastare la pressione alta, è in grado anche di stimolare l’autofagia, il processo tramite il quale le cellule si rinnovano, degradando e riciclando i componenti danneggiati. Questo meccanismo consente la rimozione degli accumuli tossici presenti nell’encefalo. Negli animali sottoposti al trattamento è stata riscontrata una riduzione dei sintomi delle patologie neurodegenerative.

Le criticità del nuovo trattamento

Michele Vendruscolo, ricercatore dell’Università di Cambridge impegnato nello studio di nuovi trattamenti per le malattie neurodegenerative, spiega che felodipina è già un farmaco approvato dagli organi regolatori: “I trial clinici necessari per valutarne il ‘riposizionamento’ come cura per il morbo di Parkinson e la malattia di Huntington dovrebbero essere piuttosto rapidi”, spiega l’esperto. “Tuttavia, dal mio punto di vista la strategia di rimuovere le proteine che si aggregano stimolando l’autofagia è problematica, in quanto si tratta di un processo non selettivo che potrebbe causare la rimozione di una vasta gamma di componenti della cellula funzionali e necessari”, prosegue Vendruscolo. “Questo è particolarmente vero nel caso di trattamenti cronici, come quelli richiesti da malattie neurodegenerative. Sarà molto interessante vedere se qualche compagnia farmaceutica finanzierà questi trial clinici velocizzati", conclude lo studioso.

Il legame tra stress e malattie neurodegenerative

Uno studio condotto dall’Università di Copenaghen ha evidenziato l’esistenza di un legame tra lo stress e le malattie neurodegenerative. Basandosi sui dati di un sondaggio condotto tra il 1991 e il 1994 su 7.000 persone con un’età media di 60 anni, i ricercatori hanno stabilito che subire un esaurimento nervoso incrementa il rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer, a causa della presenza di elevati livelli dell’ormone cortisolo nell’organismo e dei cambiamenti cardiovascolari dovuti allo stress. Secondo Sabrina Islamoska, l’autrice della ricerca, è possibile prevenire le malattie neurodegenerative anche affrontando i fattori di rischio psicologici.

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