Una prova difficile

di Dario Di Vico

Una democrazia matura che ha superato dure prove può e deve affrontare da «forza tranquilla» l’ennesimo stress test che gli si para davanti come quello rappresentato dall’introduzione dell’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro

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Illustrazione di Doriano Solinas

Non ci siamo abituati e quindi fatichiamo ad ammettere che la società italiana sta dando ripetute dimostrazioni di equilibrio e sta esprimendo una voglia di stabilità che non conoscevamo da tempo. Mi è già capitato di sottolineare come ciò sia dovuto al «sottostante», ai due sistemi cardine della struttura sociale, le famiglie e le imprese, e alla loro capacità di tenuta di fronte alla pandemia. Spulciando nelle indagini dell’Istat si possono trovare nel diario degli italiani molte conferme. Il clima familiare per 9 intervistati su 10 non è peggiorato, anzi il contrario. Gli uomini tra i 35 e i 44 anni, ad esempio, hanno significativamente aumentato il tempo dedicato alla famiglia. Non c’è stata la temuta ondata di separazioni e divorzi quale frutto malato della convivenza forzata. Come in passato la famiglia ha continuato ad agire da redistributore di risorse ma stavolta grazie alla compresenza al suo interno di lavoratori dipendenti e autonomi ha fatto arbitraggio pacifico tra garantiti e non garantiti. Sul versante delle imprese il fenomeno è ancora più vistoso considerata l’accentuata competizione internazionale a cui sono esposte. Le aziende sono rimaste agganciate alle economie forti, vorrebbero assumere ma non trovano e nonostante il blocco della mobilità delle merci hanno aumentato la quota di esportazioni.

I noltre è in corso un processo di accorpamento/fusioni delle Pmi che nel medio periodo potrebbe riservarci sorprese nella rilevazione della dimensione media delle aziende. Laddove la società si è scucita, il terzo settore è intervenuto in chiave sussidiaria per rammendarla e comunque l’imponente trasferimento di sussidi e bonus ha avuto l’effetto di mitigare, almeno sul breve, le disuguaglianze come testimoniato da un report dell’Istat pubblicato in luglio e curiosamente sottovalutato. Quello che per molte settimane era parso un vulnus irreparabile per l’economia nazionale come la temporanea chiusura delle trattorie, con il senno di poi e le soluzioni trovate dai Comuni (i centomila dehors) non solo è stato suturato ma oggi veniamo a sapere che la ristorazione fuori casa è uno dei business più frequentati dai capitali del private equity, vale 55 miliardi e consente buoni ritorni.

Anche nella vita pubblica la tenuta della società si è fatta notare. La campagna elettorale, la prima di un certo rilievo dopo la fase più acuta della pandemia, si è svolta in maniera ordinata come l’accesso ai seggi. Noi giornalisti avremmo preferito più verve e un dibattito incisivo sul futuro delle città ma non possiamo negare di aver visto all’opera una democrazia composta. È vero che si è registrato un aumento dell’astensionismo ma è assai azzardato attribuirlo a una presunta rabbia dei rimasti a casa. In qualche caso ha influito la scarsa competitività dei candidati scelti dalla propria parte politica, in altri è prevalsa da parte dei cittadini una pigra sottovalutazione della contesa amministrativa, in altri ancora può aver avuto la meglio una sorta di delega post-moderna. Tutti noi nati nel Novecento della partecipazione e della lotta politica «calda» amiamo vedere le code ai seggi ma dobbiamo anche essere attenti a cogliere di volta in volta gli slittamenti contingenti dell’umore popolare evitando stereotipi e frasi fatte. E di gridare al lupo quando tutt’al più siamo in presenza di un cane.

Anche sul terreno delicato dell’adesione alla campagna vaccinale la società italiana ha dato un’ottima prova di efficienza. Pure in questo caso abbiamo registrato risultati tutt’altro che scontati (80% degli over 12) se rapportati alla tradizione anarchica testimoniata dall’altissimo livello dell’evasione fiscale e dai risultati contraddittori della raccolta differenziata, due parametri purtroppo significativi. Persino le Regioni che avevano mostrato in una prima fase pericolose défaillance, come la Lombardia, hanno saputo recuperare e così i numeri della vaccinazione italiana compaiono nella fascia di testa dei confronti internazionali (davanti a Francia e Germania). Grazie a quest’adesione convinta degli italiani al vaccino si è potuta affrontare la delicata prova della riapertura delle scuole che solo qualche settimana fa sembrava un incubo e che invece abbiamo imparato a gestire con efficacia e rispetto delle norme. Del resto per sondare gli umori della società italiana in questo primo scorcio di autunno basta frequentare i cinema, le sale conferenze, i luoghi di aggregazione riaperti al pubblico per registrare la soddisfazione delle persone che tornano alla socialità piena pur osservando l’obbligo del green pass e della mascherina. Il 61% degli italiani che a gennaio si lamentava soprattutto di non aver rivisto gli amici ha potuto farlo di nuovo e sono esperienze che contano nel vissuto di tutti noi più di quanto siamo abituati a considerare in sede di commento politico.

Accanto a questa maggioranza matura e consapevole c’è nel nostro Paese, come in molti altri, una consistente minoranza di cittadini che a vario titolo continua a rifiutare il vaccino. È evidente che in una situazione sanitaria ancora condizionata dalla presenza, seppur ridotta, del virus i no vax costituiscono un problema perché riducono gli spazi di ripartenza e di libertà. Il guaio è che questa minoranza ha generato le attenzioni della destra politica che ha tentato di assumerne la rappresentanza, di allargare il proprio consenso con un’Opa sulle uniche aree di scontento militante presenti nell’arena politica. L’operazione non è riuscita alla Lega di Matteo Salvini che anzi nella torsione del suo originario spirito maggioritario ha addirittura rischiato di spaccarsi perché la principale constituency, il Nord industriale e produttivo, aveva già scelto dove stare senza se e senza ma. Da qui la ricerca da parte dei no vax dell’avventura di piazza e l’ibridazione con la destra fascista ed eversiva che ha guidato la protesta verso il green pass fuori dal suo letto e l’ha indirizzata contro i propri avversari storici, i sindacati.

La risposta di Mario Draghi con la visita al quartier generale della Cgil, violato da Forza Nuova, è stata pienamente in linea con la compostezza e la ritrovata moderazione dell’Italia profonda. Ed è suonata come il riconoscimento che le democrazie contemporanee per governare le tensioni legate alle sfide della seconda modernità (transizione ecologica in testa) hanno bisogno di allargare il perimetro della responsabilità, di accogliere il figliol prodigo, di coinvolgere i soggetti sociali nell’elaborazione delle soluzioni (e non a caso oggi il premier vedrà Cgil-Cisl-Uil). È questa la risposta più efficace ai disordini di piazza e all’inaudita caccia all’infermiere scatenata dagli ultras della destra. È questa l’unica chiave utile per discutere del Patto sociale senza scimmiottare gli anni ’90: condividere una prospettiva e ingaggiare i soggetti della mediazione in un’operazione che non deve avere l’obiettivo di puntellare il Palazzo ma di parlare tramite loro alle persone, ai tanti.

Una democrazia matura che ha superato queste prove può e deve affrontare da «forza tranquilla» l’ennesimo stress test che gli si para davanti come quello rappresentato dall’introduzione dell’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È una prova che va gestita per allargare il numero dei vaccinati e non per perseguitare i no vax. Non è un’operazione impossibile, basta predisporre un ulteriore sforzo organizzativo, mettere in campo una comunicazione persuasiva, spiegare a chi finora non ha voluto capire quali sono i veri dividendi del vaccino come poter assicurare la ripartenza dell’economia e dell’occupazione o anche solo andare allo stadio o al cinema. È un passaggio che va vissuto, pur nel pieno rispetto delle regole e delle decisioni del governo, come un ampliamento del consenso, un allargamento della maggioranza moderata perché se siamo riusciti ad essere uniti nella tragedia sarebbe veramente paradossale che ci dividessimo nel momento della vittoria. Per questo motivo suonano incomprensibili e senza giustificazioni la minaccia di sciopero degli autisti dei Tir e ancor di più la protesta dei portuali triestini, che in questo modo non solo scommettono contro il Pil ma danneggiano la loro città proprio ora che può tornare a giocare un ruolo decisivo nei traffici tra l’Est e la Mitteleuropa. Purtroppo avevano ragione i classici: a quelli che vuole rovinare Giove toglie per prima cosa la ragione.

13 ottobre 2021 (modifica il 13 ottobre 2021 | 22:32)