Mezzogiorno, 28 novembre 2021 - 09:22

Ecco perché la città va aiutata

di Mario Rusciano

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L’editoriale di venerdì del direttore Enzo d’Errico — ripreso ieri in un commento di Marco Ferra e nella risposta dello stesso Direttore a una lettera — apre un dibattito sul «caso Le Figaro» e sui difetti dei napoletani. Che parlano senza leggere (leggendo avrebbero visto che il giornale francese parla anche bene di Napoli); si chiudono a difesa in un «catenaccio ideologico»; rifiutano modernità e sprovincializzazione. Intendiamoci: bandite le volgarità, è comprensibile l’istintiva reazione all’idea che Napoli sia più africana che europea. Ma se all’istinto subentra la razionalità il discorso cambia. Sia perché uno scrittore italiano fu molto più duro («Napoli è l’unica città africana priva di un quartiere europeo»); sia perché, contemporaneamente a Le Figaro, l’indagine d’un giornale italiano mette Napoli al penultimo posto (all’ultimo c’è Crotone) nella «graduatoria di vivibilità» delle città italiane. Qui la reazione ironica è penosa, basata sui soliti stereotipi. Un video sui social mostra un signore al mare: a novembre prende il sole e fa il bagno con Capri di fronte. Non crede alla graduatoria, la capovolge e dice: se questo è vivere male a Napoli, forse a Crotone si vive pure meglio!

Superata la stranezza delle reazioni — rabbiose volgari o ironiche — il principio di realtà esige che i napoletani riflettano sulla situazione della città: strade bucate; traffico impazzito; rifiuti dappertutto; alte imposte locali per servizi inesistenti ecc.. Ovviamente parlare di Napoli come di una città «africana» è un’idiozia. Semmai andrebbe paragonata a una vecchia nobildonna decaduta per storiche peripezie: conserva tratti di nobiltà, rivela segni d’antica beltà, ma ora vive nell’indigenza e alla giornata. Comunque, senza eccedere in un senso (Napoli, Africa!) o nell’altro (Napoli, Paradiso: mare sole canzoni!), occorre ora ragionare sulla condizione della città all’esordio d’una nuova amministrazione. Partendo appunto dalla faticosa transizione — senza risorse e con la pandemia — e in un contesto socio-economico difficile: poco lavoro e molta disoccupazione. 1) Anzitutto i napoletani pensino al disastro finanziario denunciato ripetutamente da Gaetano Manfredi. C’è differenza di stile tra vecchio e nuovo Sindaco. De Magistris denunciava il dissesto finanziario in modo sbagliato: sbraitando per protesta in piazza a Roma oppure sottovoce per evitare il commissariamento (invero provvidenziale!).

Dopo aver rotto coi vari Governi e con la Regione (da Caldoro a De Luca) e aver dichiarato Napoli città autonoma e ribelle, de Magistris riusciva a malapena a tamponare i guasti, mai a costruire soluzioni credibili; bravissimo piuttosto a distogliere l’attenzione inventandosi eventi di facciata ed esaltando la vivacità di Napoli, grande meta turistica. Manfredi invece — avendo condizionato la sua candidatura napoletana ad aiuti romani (più o meno formalizzati nel «Patto per Napoli») — richiama il Governo alle sue responsabilità, aggiungendo che, se da Roma non arrivassero risposte efficaci, non esiterebbe a dimettersi. 2) Quanto al soccorso del Governo nazionale, ancora non si sa se arriva oppure no; e, se arriva, come quando e in quali termini. Stupisce che, se si parla di aiuto governativo a Napoli, lo si ritiene impossibile perché vari altri Comuni sono in difficoltà economiche e sono inammissibili discriminazioni. Evidentemente si trascura la «specialità» di Napoli: terza città d’Italia con circa un milione di abitanti; centro dell’area metropolitana più popolosa d’Italia (circa tre milioni) e con la densità più alta d’Europa. Mettere sullo stesso piano Napoli e altri Comuni significa ignorare la logica elementare della «parità di trattamento»: non trattare in modo eguale oggettive situazioni diseguali! Roma, Milano e Napoli sono le tre grandi città metropolitane del Paese. Scontato che a Milano non servono aiuti statali — giacché è abbastanza ricca, grazie anche all’antico apporto di valorosi emigrati meridionali a discapito del Sud — nessuno ha fiatato, giustamente, sull’intervento speciale a favore di Roma-Capitale.

Ora l’intervento speciale per Napoli non è interesse dell’intero Paese? Niente vittimismo napoletano, ma può il Governo lasciare milioni d’italiani allo sbaraglio e senza futuro? Non si tratta di elemosinare soldi fuori controllo bensì di chiedere risorse indispensabili alla macchina amministrativa e misure per gestire il debito storico e far funzionare i servizi essenziali. 3) Indispensabili infine partecipazione e contributo dei napoletani al risanamento e alla ripresa. Operazione difficilissima: perché mentre molti — specie volontari (laici e cattolici) e terzo settore — già danno un contributo essenziale, a Napoli oltre alla criminalità esiste da sempre la «plebe». Quel ceto sociale fatto non di disoccupati o lavoratori in nero — veri indigenti e disagiati — ma di gente che pensa solo a se stessa, evade i tributi, non manda i figli a scuola e s’arrangia (mica tanto male!) approfittando del caos senza controlli. Vive nell’anarchia, convinta che le (pessime) vecchie consuetudini prevalgano sulle leggi. Necessari allora servizi sociali, «educatori» e «controllori» capaci d’inoculare nel tessuto urbano il senso civico e il rispetto delle regole. È il compito più complicato: non solo della classe dirigente ma pure di partiti, sindacati, associazioni e di quanti tengono davvero al destino di Napoli.

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