7 maggio 2021 - 23:01

Omicidio Nada Cella, una nuova inchiesta. Il delitto irrisolto che è diventato rimorso collettivo

La ragazza assassinata a Chiavari venticinque anni fa nell’ufficio in cui lavorava. Il procuratore di Genova Cozzi: «Darei un anno di vita per arrivare alla verità»

di Marco Imarisio

Omicidio Nada Cella, una nuova inchiesta. Il delitto irrisolto che è diventato rimorso collettivo Nada Cella aveva 25 anni
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Nada Cella è molto più di un caso freddo. Nada Cella è un rimorso. Per tutti quelli che c’erano all’epoca, per quelli che sono venuti dopo di loro. Sono passati venticinque anni e ancora qualcuno ci prova. Non solo perché fino a quando la salute gliel’ha concesso Silvana Smaniotto, la madre, bussava alla porta di ogni nuovo magistrato della Procura di Genova per chiedere giustizia. Quella morte senza colpevoli, avvenuta in una città piccola, dove tutti si conoscono, grida ancora vendetta a Dio e agli uomini, non c’è altro modo di dirlo. Soprattutto per l’imperizia e la negligenza degli inquirenti dell’epoca, autori di una indagine che nei seminari di criminologia viene ricordata come un compendio di tutto quello che non bisogna fare sulla scena del delitto e nei giorni seguenti.

L’assassino al citofono

La mattina del 6 maggio 1996, Nada Cella va al lavoro in bicicletta. Ha 25 anni, da pochi mesi è stata assunta come segretaria nello studio del commercialista Marco Soracco, in un palazzo della Chiavari vecchia. È figlia unica di Bruno e Silvana, lui impiegato del Comune, lei bidella. «Segni particolari: brava ragazza» titolerà il settimanale Oggi. Quel lunedì, Nada apre lo studio e accende le luci, come sempre. Alle 9 apre anche a una persona che suona al citofono. L’assassino percorre un lungo corridoio, ed entra nell’ultima stanza a destra, come se sapesse dove andare. A chiamare il 113 è il principale, sceso dall’appartamento al piano di sopra dove abita con la madre. C’è stato un incidente, dice. Quando arrivano i primi soccorsi, Nada ha il viso e il torace coperti di sangue. È stata colpita alla testa e al pube almeno 15 volte, con un oggetto pesante e aguzzo, mai più ritrovato. Muore in ospedale dopo una breve agonia.

Il caso di Simonetta

I giornali se ne occupano quasi solo per sottolineare le analogie con il delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa a Roma nel 1990, anche lei in ufficio. Forse è anche la somiglianza con quel famoso precedente, a confinare quella vicenda nell’ambito dei delitti di provincia. Oppure la ragione di una rimozione che dura ancora oggi è il fallimento totale delle indagini, che aleggia ancora nell’aria di questure e tribunali liguri. Non è un caso che nel disporre l’ennesimo tentativo di riapertura delle indagini il procuratore capo Francesco Cozzi dica che darebbe un anno o anche più di vita per risolvere quel caso. Prima di arrivare a Genova, ha diretto il piccolo ufficio giudiziario di Chiavari. Sa cosa rappresenta quella vicenda, ne conosce la portata simbolica.

Gli errori nelle indagini

La scena del delitto viene subito stravolta. I primi investigatori giunti sul posto concedono alla madre e alla zia di Soracco, preoccupate per il decoro dell’immobile, il permesso di pulire le macchie di sangue lasciate dalla ragazza sul ballatoio e in alcune parti dello studio. Non c’è accordo sull’eventualità di intercettare subito le conversazioni telefoniche degli inquilini e non se ne farà nulla per settimane. Alcuni prelievi del Dna non vengono concessi per cavilli giuridici. «La soluzione è vicina, pochi giorni e saprete tutto», aveva detto il magistrato incaricato delle indagini subito dopo il delitto. Alla fine del 1998 il caso viene archiviato, con il silenzio dovuto alle vicende gestite malissimo. Il commercialista e sua madre, unici indagati, vengono scagionati. Agli atti non resta neppure uno straccio di ipotesi sul movente. Bruno Cella muore di crepacuore nel luglio del 1999. Come ogni giorno, stava guidando verso il cimitero dove è sepolta la figlia.

Tentativi a vuoto

Da allora, ad anni alterni nasce una sterile illusione. Nel novembre 1999 vengono disposti accertamenti su un muratore della zona, reo confesso dell’omicidio di una prostituta serba. Nel 2005 si riapre il fascicolo partendo dai diari della ragazza. Nel 2006 la Procura di Genova indaga per il delitto altri due muratori coinvolti in un’inchiesta su un racket della prostituzione. Nel 2011 ennesimo tentativo con gli scarsi reperti di indagine, questa volta sono tre capelli che non appartengono alla vittima. Niente, niente e ancora niente. Proprio l’ultimo tentativo dovrebbe indurre oggi alla cautela. Anche Cozzi e il gruppo che si occupa dei cold case confidano nel supporto di tecnologie che ancora non c’erano nel lontano 1996. Per questo hanno mandato ad analizzare frammenti di Dna a Milano, Roma e negli Stati Uniti, presso l’Fbi. «A me nessuno mi ha informato» dice al telefono la signora Silvana. «E non vorrei che queste novità fossero dovute solo al fatto che sono venticinque anni tondi dalla morte di Nada. Ma anche se fosse, fino a quando non salterà fuori il colpevole sarà sempre giusto provarci». Almeno come risarcimento postumo da parte dello Stato. Almeno come un modo implicito di chiedere scusa a una povera ragazza e alla sua famiglia.

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