Get Back: Peter Jackson racconta i Beatles
Courtesy of Eithan a. Russell

Get Back: Peter Jackson racconta i Beatles

di Andrea Giordano

Il regista neozelandese, artefice della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, ci riporta ad uno dei momenti in cui la band fece la storia

Una docuserie immersiva, The Beatles: Get Back (in onda in esclusiva dal 25 al 27 novembre su Disney+), diretta dal Premio Oscar Peter Jackson, l’artefice cinematografico, soprattutto, delle trilogie mirabolanti de Il signore degli Anelli e del Lo Hobbit, scandisce l’evento, fissando ora lo sguardo legato ad un momento chiave, tra gli ultimi, della carriera straordinaria dei Fab4 di Liverpool, i Beatles. L’orologio torna dunque indietro, al gennaio 1969, quando Paul McCartney, John Lennon, Ringo Star e George Harrison, decisero di mostrarsi alle telecamere di Michael Lindsay-Hogg, durante i 21 giorni di sessioni ai Twickenham Film Studios, registrando 14 canzoni legate al dodicesimo album, Let it be (pubblicato nel 1970), con brani come Across the Universe, Dig It, e appunto Get Back, che avrebbe dovuto dare il nome originariamente al progetto. Oltre 60 ore di filmati inediti e 150 ore di registrazioni audio mai ascoltate, che finora erano state conservate in una sorta di caveau, a cui lo stesso Jackson ha avuto però autorizzazioni e accesso. Conversazioni, attimi geniali e creativi, privati, spontanei, voluti, anche di scontro (vedi la presenza di Yoko Ono) mostrando sotto pressione l’evoluzione dei rapporti e delle loro relazioni, l’amicizia consolidata, messa però a dura prova, mentre stavano portando a termine qualcosa di epocale. L’ennesima impresa musicale e (anche) visiva, raccontata nel recente-omonimo libro di John Harris, edito Mondadori, che ebbe un finale, diventato poi leggendario, quel concerto improvvisato (e non autorizzato) sul tetto della Apple Records, al numero 3 di Saville Row a Londra.

La ‘Beatles mania’ non smette di ispirare, riflettere, voglia di approfondire, è così?

Sono nato nel 1961, ero vivo quando i Beatles stavano effettivamente pubblicando i loro album, ed io, da ragazzo, come tanti, ne sono poi diventato un fan. In casa, mia madre aveva una passione per i South Pacific ed Engelbert Humperdinck, giravamo tanti dischi, ma nessuno di loro, così con la prima paghetta, a 10-11 anni, invece che andare a comprare il modellino di un aereo, decisi di fermarmi e investire tutto quello che avevo in tasca comprando il Red e il Blue album. Acquistare quei due LP mi ha iniziato ad una consapevolezza diversa. Credo che sia il punto anche di questo lavoro, ci sembrava una storia incredibile da ricostruire, dandogli un nuovo splendore visivo, ma decifrando quella loro grandezza, che oggi ci fa ancora parlare di ciò che hanno fatto.

Fecero la storia, di nuovo.

Non parliamo unicamente di musica, ma di un modo innovativo di raccontarla ed inventarla. Se consideriamo quanti anni i Beatles sono rimasti uniti, davvero pochi, hanno prodotto cose straordinarie, e in un tempo breve. Chi lo farebbe oggi?

A tratti, guardando la docuserie, ci si avvicina al punto di farne quasi parte, è come origliare da dietro la porta.

C’ho lavorato quattro anni, puntando a far sì che l’audio potesse andare anche in questa direzione: sta in quelle registrazioni, mi sono sentito quasi come un agente della CIA, pronto a scoprire qualcosa che proveniva dal passato, 52 anni fa per l’esattezza, e da amante del gruppo alla fine ne ho capito le sfumature, l’importanza di alcune parole, frasi. Non è solo un momento, lì c’è la relazione tra John e Yoko, c’è il viaggio artistico di Paul, pronto, di lì a poco, a diventare solista, quelli di George e Ringo, c’è la storia, ed è uno dei punti chiave, di Michael Lindsay-Hogg, che cerca di realizzare il suo film-documentario, Let It Be – Un giorno con i Beatles (uscito nel 1970, ndr). Lui stesso è un personaggio, seppur invisibile.

Nella cronologia di quei giorni, spesso vediamo anche un’insolita improvvisazione, com’è possibile?

Guardando i filmati, la diretta, il fatto che ci fosse il loro manager, Brian Epstein, attento a occuparsi di tutto, gli alberghi, i viaggi, sembra tutto apparentemente perfetto, ma molte decisioni vennero prese all’ultimo istante, come la famosa esibizione sul tetto. La cosa che colpisce, analizzando quei giorni, cosa si dissero, è una certa forma di dualità, come se non fossero stati fino in fondo d’accordo nell’accettare le riprese di Hogg, quanto, poi, invece, scoprire parallelamente il desiderio di donarsi nei confronti della telecamera. I Beatles sapevano sempre sbalordire, erano perfetti, ma dentro volevano quasi stravolgere la loro immagine, ed iniziare a rivoluzionarla.

Pensavamo di conoscere tutto di loro, ed invece..

Alla fine del lavoro su Hey Jude, si sentivano  stanchi, arrivarono al 2 gennaio ‘69 dopo un periodo di vacanza, avendo festeggiato Natale e Capodanno, probabilmente non si erano preparati come facevano di solito. Ma accidenti sono i Beatles, hanno realizzato l’impossibile. Forse la cosa davvero che ho capito di loro è il fatto che erano ragazzi normali, semplici, capaci però di sottrarsi alle etichette, e far della loro unione, per quanto possibile, una cosa affascinante.